Scarto a Bologna è nato per combattere
lo spreco nella mixology, ma ora il locale di via della Braina è
diventato molto, molto di più.
Fino a qualche anno fa le tendenze nel
mondo della ristorazione avevano a che fare con sifoni, azoto, elio.
La sperimentazione era fine a se stessa, la creatività volta solo a
stupire. Ma the times they are a changin’ e se il resto del mondo
riscopre di avere una coscienza ambientale, o quantomeno ci prova, le
istanze etiche arrivano anche nel mondo della gastronomia.
E anche bere (bene) diventa un atto
consapevole.
Si lavora sulle fermentazioni, sulle
essiccazioni, su qualsiasi tecnica che permetta di prolungare la
‘vita’ dei prodotti
La storia di Scarto comincia a Zurigo.
Quattro anni Carsten Steinacker lavorava nel proprio studio di
architettura ma come hobby faceva il barman. “Sentivo che il lavoro
della mixology mancava di contenuto,” racconta Carsten in italiano
quasi perfetto, con accento solo vagamente nordico, intervallato qua
e là da inflessioni bolognesi. Un anno fa sapeva dire solo 'Ciao' ma
si sa, la mancanza di conoscenza dell’inglese degli italiani spinge
ad arrangiarsi. “Una sera eravamo quattro amici al bar, come si
dice, con un bel po’ di birrette. E io ho buttato lì: ‘Perché
non facciamo qualcosa contro lo spreco?’. La professione della
mixology è piena di sprechi. Buttavamo via cinque litri di limone
ogni settimana! Uno di noi, Stefano, ha proposto la sua città,
Bologna: nessuno la conosceva. Ci siamo andati e ci è piaciuta
subito”. Seguono mesi di negoziazione con il Comune per trovare una
sede alla neonata Associazione Scarto. Arrivano in questo ex
monastero in via della Braina, in pieno centro storico, senza acqua
né elettricità. È inizio 2018. Iniziano a lavorarci.
Se all'estero la filosofia del zero
waste applicata alla mixology esiste già, in Italia è il primo
esperimento di questo genere che peraltro nasce in una città,
Bologna, già capostipite nella lotta allo spreco con l'esperimento
dei Last Minute Market.
Ad avviare il locale c’è la nostra
amica Victoria Small, conosciuta da Carsten al Wood*Ing Bar di
Milano, dove Valeria Mosca applicava le ricerche del suo Wood*Ing Lab
al bere miscelato. Dopo i primi tre mesi di avviamento è lei a
consigliare il nome di Alessio Ghiringhelli e Laura Angelina,
conosciuti proprio a un corso sul foraging. Il trio di Scarto è al
completo.
È così la sua etica di bar a spreco
zero: si lavora sulle fermentazioni, sulle essiccazioni, su qualsiasi
tecnica che permetta di prolungare la ‘vita’ dei prodotti e
utilizzarne parti normalmente neglette.
"Vogliamo che la gente si diverta:
bere bene, chiacchierare. Solo dopo spieghiamo. Non vogliamo vendere
il bar con l’idea verde."
L’anno scorso ho frequentato Scarto a
cavallo dell’apertura. Poi non ci sono andata per un anno,
nonostante si trovi nel mio quartiere, perché è così, a volte i
luoghi più vicini a te sono quelli che dimentichi, i tuoi amici
frequentano altri locali, eccetera. Li seguivo sui social. Vedevo i
loro corsi in cui insegnavano a fare il kombucha, il kimchi o la
ginger beer. Vedevo cocktail accattivanti. E alla fine questo
settembre mi sono detta: è decisamente il momento di tornarci.
Intanto sorseggio Par*fume, un gin
tonic dove al posto della tonica c’è un vino autoprodotto di ribes
Cos’è cambiato, in un anno? Prima di
tutto l’ambiente. Le tre stanze sono adesso arredate con arredi di
legno fatti a mano. C’è un vero e proprio bancone. C’è una
linea di liquori autoprodotti: infuso all’abete rosso, umeshu con
prugne locali, nocino. “Abbiamo preso le misure, capito cosa
possiamo e non possiamo fare. L’idea è sempre quella: sprecare il
meno possibile e usare metodi di conservazione per preparare i
cocktail. Ma sono cambiati i prodotti,” spiega Carsten. “Ora
abbiamo un rapporto più stretto con i fornitori locali. Inoltre ci
hanno lasciato sette metri quadri di orto dietro al nostro cortile
dove coltiviamo fragole, pomodori, aglio e cipolla. A un paio di
chilometri ci sono i colli, dove è pieno di piante aromatiche da
raccogliere.” Intanto io sorseggio un Par*fume, un gin tonic dove
al posto della tonica c’è un vino autoprodotto di ribes; in menu è
segnato come fragola, ma quello l’hanno finito. A comandare sono le
stagioni e non il cliente.
Producono molti "vini di frutta",
dove il frutto viene macerato intero dentro l’acqua, per poi
aggiungere scorza di limone, zucchero e lieviti da champagne che
"mangiano meglio gli zuccheri, in modo che il risultato finale
sia secco, con un grado alcolico medio e una bolla fine, intorno ai 7
gradi," mi spiega Laura. Provo il vino di banana: buonissimo, e
sorprendentemente poco dolce.
“Il nostro sistema di per sé non
genera sprechi, contribuendo a un’economia circolare del
territorio: non correggiamo un meccanismo che non va, ne abbiamo
creato uno che funziona senza scarti."
Un amico di fianco a me beve un gin
tonic con vino di cetriolo: un esperimento con scarti dell'ortaggio
che è sorprendentemente ben riuscito. Un altro beve un Negroni con
un bitter di bacche di alloro. Ci sono i cocktail tradizionali, ma
rivisitati e un piccolo menu che cambia ogni giorno, anzi, ogni ora,
scherzano. Siamo in pratica ancora in estate quindi no, niente arance
né limoni, che comunque cercano sempre di evitare. L’idea di base
è: usare prima l’ingrediente fresco e poi quello conservato.
Ma questo te lo dicono solo te lo
chiedi. “Vogliamo che la gente si diverta: bere bene,
chiacchierare. Solo dopo spieghiamo. Non vogliamo vendere il bar con
l’idea verde," dice Carsten. "Altrimenti facciamo un
lavoro limitato, arrivando solo a gente del settore. Io nel mio
locale vorrei la vecchietta che abita qui di fianco così come Green
Peace. Vorremmo arrivare a stampare un libro, che spieghi la nostra
filosofia, da dare ai nostri clienti che hanno tempo e voglia di
leggerlo."
IL COCKTAIL CON ACQUA
DI KOJI.
Arrivano altri cocktail. Il
Cir*cularity è fatto con un infuso di mosto, Trebbiano e Mulsum.
Strepitoso. Poi l’Aci*dity con whisky, shrub di prugne, vino
giovane francese: la polvere di ibisco sul bordo del bicchiere lo
rende pericolosamente facile da bere. Chiudiamo con un cocktail fuori
carta a base di sake, umeshu, acqua di scarto del koji (anche le
ceramiche, bellissime, sono "a km 0": vengono dallo
splendido negozio Bifranci).
I prezzi oscillano tra i 7 e gli 11
euro, come in un qualsiasi cocktail bar di livello medio-alto in
città, ma tutti i liquori hanno quasi la metà dello zucchero
normale - e i cocktail hanno nettamente meno alcol. Diciamo che è
molto difficile uscire senza berne due o tre, anche per l'abilità di
Laura e Alessio nel capire e assecondare i gusti. C’è poi una
bella offerta non alcolica, con in testa i kombucha - in questo
momento al caffè o alle more di gelso - che sono l’unico loro
prodotto a fermentazione spontanea, visto che normalmente le tengono
molto controllate. Su ogni scaffale ci sono barattoli colorati,
misteriosi contenitori di cose che fermentano. E poi c’è una
cucina dove ora, dopo un anno di panini e taglieri, c’è un vero e
proprio cuoco.
Gian Maria Fano era primo di tutto un
cliente che faceva chiusura da Scarto tutte le sere. Aveva lavorato,
tra gli altri posti, al Kadeau di Copenaghen e a Tokyo. In nessun
ristorante italiano trovava qualcuno che condividesse la sua "etica
ed estetica”. Qui li ha trovati. Per ora può solo preparare piatti
freddi (ma i permessi per una vera e propria cucina sono in arrivo):
piccoli e deliziosi snack come rape, prugne marinate nel kombucha
(resti dello shrub), ibisco e polvere di lievito. "Con la
fermentazione in Italia siamo in una zona grigia: si può fare ma
nessuno ti dice come," spiega Gian Maria. "Non c’è una
legislazione, non c’è un protocollo definito. In realtà basta
seguire le linee guida dell’igiene. Il problema più grave è fare
qualcosa che faccia schifo,” riassume ridendo. Assaggiamo anche i
cetrioli con maionese alle nespole salate: la presenza del miso li
rende una bomba di umami.
"Il lavoro sullo scarto non è
morto," conclude Carsten. "Ma a questo abbiamo aggiunto il
metodo intelligente di un sistema autonomo che non genera sprechi,
contribuendo a un’economia circolare. Ad esempio, con il contadino
da cui facciamo le verdure, riusciamo a fare piani annuali di
coltivazione. Non correggiamo un meccanismo che non va, ne abbiamo
creato uno che funziona senza scarti; non andiamo a riparare buchi,
ma li preveniamo”. Un cocktail bar inserito nel territorio,
insomma, sostenibile proprio perché in connessione con i produttori
e non una sperimentazione fine a se stessa.
Attenti: non chiedete mai una cannuccia
di plastica.
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