martedì 1 ottobre 2019

Il bar di Bologna che fa cocktail a scarto zero

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Scarto a Bologna è nato per combattere lo spreco nella mixology, ma ora il locale di via della Braina è diventato molto, molto di più.
Fino a qualche anno fa le tendenze nel mondo della ristorazione avevano a che fare con sifoni, azoto, elio. La sperimentazione era fine a se stessa, la creatività volta solo a stupire. Ma the times they are a changin’ e se il resto del mondo riscopre di avere una coscienza ambientale, o quantomeno ci prova, le istanze etiche arrivano anche nel mondo della gastronomia.
E anche bere (bene) diventa un atto consapevole.
Si lavora sulle fermentazioni, sulle essiccazioni, su qualsiasi tecnica che permetta di prolungare la ‘vita’ dei prodotti
La storia di Scarto comincia a Zurigo. Quattro anni Carsten Steinacker lavorava nel proprio studio di architettura ma come hobby faceva il barman. “Sentivo che il lavoro della mixology mancava di contenuto,” racconta Carsten in italiano quasi perfetto, con accento solo vagamente nordico, intervallato qua e là da inflessioni bolognesi. Un anno fa sapeva dire solo 'Ciao' ma si sa, la mancanza di conoscenza dell’inglese degli italiani spinge ad arrangiarsi. “Una sera eravamo quattro amici al bar, come si dice, con un bel po’ di birrette. E io ho buttato lì: ‘Perché non facciamo qualcosa contro lo spreco?’. La professione della mixology è piena di sprechi. Buttavamo via cinque litri di limone ogni settimana! Uno di noi, Stefano, ha proposto la sua città, Bologna: nessuno la conosceva. Ci siamo andati e ci è piaciuta subito”. Seguono mesi di negoziazione con il Comune per trovare una sede alla neonata Associazione Scarto. Arrivano in questo ex monastero in via della Braina, in pieno centro storico, senza acqua né elettricità. È inizio 2018. Iniziano a lavorarci.
Se all'estero la filosofia del zero waste applicata alla mixology esiste già, in Italia è il primo esperimento di questo genere che peraltro nasce in una città, Bologna, già capostipite nella lotta allo spreco con l'esperimento dei Last Minute Market.
Ad avviare il locale c’è la nostra amica Victoria Small, conosciuta da Carsten al Wood*Ing Bar di Milano, dove Valeria Mosca applicava le ricerche del suo Wood*Ing Lab al bere miscelato. Dopo i primi tre mesi di avviamento è lei a consigliare il nome di Alessio Ghiringhelli e Laura Angelina, conosciuti proprio a un corso sul foraging. Il trio di Scarto è al completo.
È così la sua etica di bar a spreco zero: si lavora sulle fermentazioni, sulle essiccazioni, su qualsiasi tecnica che permetta di prolungare la ‘vita’ dei prodotti e utilizzarne parti normalmente neglette.
"Vogliamo che la gente si diverta: bere bene, chiacchierare. Solo dopo spieghiamo. Non vogliamo vendere il bar con l’idea verde."
L’anno scorso ho frequentato Scarto a cavallo dell’apertura. Poi non ci sono andata per un anno, nonostante si trovi nel mio quartiere, perché è così, a volte i luoghi più vicini a te sono quelli che dimentichi, i tuoi amici frequentano altri locali, eccetera. Li seguivo sui social. Vedevo i loro corsi in cui insegnavano a fare il kombucha, il kimchi o la ginger beer. Vedevo cocktail accattivanti. E alla fine questo settembre mi sono detta: è decisamente il momento di tornarci.
Intanto sorseggio Par*fume, un gin tonic dove al posto della tonica c’è un vino autoprodotto di ribes
Cos’è cambiato, in un anno? Prima di tutto l’ambiente. Le tre stanze sono adesso arredate con arredi di legno fatti a mano. C’è un vero e proprio bancone. C’è una linea di liquori autoprodotti: infuso all’abete rosso, umeshu con prugne locali, nocino. “Abbiamo preso le misure, capito cosa possiamo e non possiamo fare. L’idea è sempre quella: sprecare il meno possibile e usare metodi di conservazione per preparare i cocktail. Ma sono cambiati i prodotti,” spiega Carsten. “Ora abbiamo un rapporto più stretto con i fornitori locali. Inoltre ci hanno lasciato sette metri quadri di orto dietro al nostro cortile dove coltiviamo fragole, pomodori, aglio e cipolla. A un paio di chilometri ci sono i colli, dove è pieno di piante aromatiche da raccogliere.” Intanto io sorseggio un Par*fume, un gin tonic dove al posto della tonica c’è un vino autoprodotto di ribes; in menu è segnato come fragola, ma quello l’hanno finito. A comandare sono le stagioni e non il cliente.
Producono molti "vini di frutta", dove il frutto viene macerato intero dentro l’acqua, per poi aggiungere scorza di limone, zucchero e lieviti da champagne che "mangiano meglio gli zuccheri, in modo che il risultato finale sia secco, con un grado alcolico medio e una bolla fine, intorno ai 7 gradi," mi spiega Laura. Provo il vino di banana: buonissimo, e sorprendentemente poco dolce.
“Il nostro sistema di per sé non genera sprechi, contribuendo a un’economia circolare del territorio: non correggiamo un meccanismo che non va, ne abbiamo creato uno che funziona senza scarti."
Un amico di fianco a me beve un gin tonic con vino di cetriolo: un esperimento con scarti dell'ortaggio che è sorprendentemente ben riuscito. Un altro beve un Negroni con un bitter di bacche di alloro. Ci sono i cocktail tradizionali, ma rivisitati e un piccolo menu che cambia ogni giorno, anzi, ogni ora, scherzano. Siamo in pratica ancora in estate quindi no, niente arance né limoni, che comunque cercano sempre di evitare. L’idea di base è: usare prima l’ingrediente fresco e poi quello conservato.
Ma questo te lo dicono solo te lo chiedi. “Vogliamo che la gente si diverta: bere bene, chiacchierare. Solo dopo spieghiamo. Non vogliamo vendere il bar con l’idea verde," dice Carsten. "Altrimenti facciamo un lavoro limitato, arrivando solo a gente del settore. Io nel mio locale vorrei la vecchietta che abita qui di fianco così come Green Peace. Vorremmo arrivare a stampare un libro, che spieghi la nostra filosofia, da dare ai nostri clienti che hanno tempo e voglia di leggerlo."

IL COCKTAIL CON ACQUA DI KOJI.
Arrivano altri cocktail. Il Cir*cularity è fatto con un infuso di mosto, Trebbiano e Mulsum. Strepitoso. Poi l’Aci*dity con whisky, shrub di prugne, vino giovane francese: la polvere di ibisco sul bordo del bicchiere lo rende pericolosamente facile da bere. Chiudiamo con un cocktail fuori carta a base di sake, umeshu, acqua di scarto del koji (anche le ceramiche, bellissime, sono "a km 0": vengono dallo splendido negozio Bifranci).
I prezzi oscillano tra i 7 e gli 11 euro, come in un qualsiasi cocktail bar di livello medio-alto in città, ma tutti i liquori hanno quasi la metà dello zucchero normale - e i cocktail hanno nettamente meno alcol. Diciamo che è molto difficile uscire senza berne due o tre, anche per l'abilità di Laura e Alessio nel capire e assecondare i gusti. C’è poi una bella offerta non alcolica, con in testa i kombucha - in questo momento al caffè o alle more di gelso - che sono l’unico loro prodotto a fermentazione spontanea, visto che normalmente le tengono molto controllate. Su ogni scaffale ci sono barattoli colorati, misteriosi contenitori di cose che fermentano. E poi c’è una cucina dove ora, dopo un anno di panini e taglieri, c’è un vero e proprio cuoco.
Gian Maria Fano era primo di tutto un cliente che faceva chiusura da Scarto tutte le sere. Aveva lavorato, tra gli altri posti, al Kadeau di Copenaghen e a Tokyo. In nessun ristorante italiano trovava qualcuno che condividesse la sua "etica ed estetica”. Qui li ha trovati. Per ora può solo preparare piatti freddi (ma i permessi per una vera e propria cucina sono in arrivo): piccoli e deliziosi snack come rape, prugne marinate nel kombucha (resti dello shrub), ibisco e polvere di lievito. "Con la fermentazione in Italia siamo in una zona grigia: si può fare ma nessuno ti dice come," spiega Gian Maria. "Non c’è una legislazione, non c’è un protocollo definito. In realtà basta seguire le linee guida dell’igiene. Il problema più grave è fare qualcosa che faccia schifo,” riassume ridendo. Assaggiamo anche i cetrioli con maionese alle nespole salate: la presenza del miso li rende una bomba di umami.
"Il lavoro sullo scarto non è morto," conclude Carsten. "Ma a questo abbiamo aggiunto il metodo intelligente di un sistema autonomo che non genera sprechi, contribuendo a un’economia circolare. Ad esempio, con il contadino da cui facciamo le verdure, riusciamo a fare piani annuali di coltivazione. Non correggiamo un meccanismo che non va, ne abbiamo creato uno che funziona senza scarti; non andiamo a riparare buchi, ma li preveniamo”. Un cocktail bar inserito nel territorio, insomma, sostenibile proprio perché in connessione con i produttori e non una sperimentazione fine a se stessa.
Attenti: non chiedete mai una cannuccia di plastica.

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