La vodka "Atomik" è il primo
prodotto fatto a partire da ingredienti della zona contaminata vicino
al reattore.
C'è una piccola fattoria sperimentale
nel cuore della zona contaminata abbandonata di Chernobyl
dove, per anni, gli scienziati hanno fatto crescere della
culture. Grano di segale, per essere precisi. Il team di
ricercatori, guidato dal professore Jim Smith dell'Università di
Portsmouth, vuole dimostrare che è possibile produrre beni di
consumo usando ingredienti contaminati. E il team ha appena svelato
il suo primo progetto - il primo a vedere la luce dalla zona
contaminata - una vodka artigianale, chiamata Atomik
e imbottigliata dall'azienda appena nata: la
Chernobyl Spirit Company.
"La nostra idea...era di usare il
grano per fare alcolici", ha detto il professor Smith, in
un'intervista alla BBC.
"È l'unica bottiglia esistente - tremo ogni volta che la
tocco".
La vodka, distillata proprio nella zona
contaminata, sembra qualcosa che troveresti al centro di un diagramma
di Venn di un fanatico del dark tourism: una seducente miscela di
macabro feticismo e pericolosa ricerca del brivido. Smith insiste,
però, che l'Atomik non "è più radioattiva di altre vodke".
E questo è più o meno il punto principale di tutta la questione.
"Qualunque chimico ve lo
confermerà: quando distilli qualcosa, le impurità rimangono nella
parte di liquido che butti" ha spiegato. "Noi prendiamo il
grano arso, che è leggermente contaminato, l'acqua dalla falda
acquifera di Chernobyl e poi distilliamo tutto. Abbiamo chiesto ai
nostri amici dell'Università di Southampton, che hanno un
incredibile laboratorio capace di rilevare anche bassissimi livelli
di radioattività, di capire se all'interno del prodotto era presente
qualche traccia di radiazioni. E non sono stati capaci di trovare
niente; tutto era al di sotto dei limiti".
Il dottor Gennady Laptev, scienziato
dell'Ukrainian Hydrometeorological Institute di Kiev e uno dei membri
fondatori della Chernobyl Spirit Company, ha spiegato alla BBC che la
vodka dimostra come una terra danneggiata, come quella attorno al
reattore nucleare esploso, possa essere usata in modo produttivo, ad
esempio per scopi agricoli.
"Non dobbiamo per forza
abbandonare questa terra", ha detto. "Possiamo usarla in
modi diversi e possiamo produrre qualcosa di assolutamente privo di
radioattività".
Al momento, come già detto, c'è solo
una bottiglia esistente, ma Smith e il suo team si stanno dando da
fare per produrne almeno 500 all'anno e, potenzialmente, per venderle
ai turisti sempre più numerosi che arrivano nella zona contaminata
di Chernobyl. I ricercatori sperano di distribuire il ricavato fra le
diverse comunità locali, quelle che vivono attorno alla zona
contaminata, e che hanno affrontato dure lotte sociali ed economiche
in seguito al disastro.
"Il problema per molte persone che
vivono in quelle zone è che non hanno una dieta bilanciata, servizi
sanitari adeguati, lavoro o investimenti" ha dichiarato Smith.
"Adesso, dopo 30 anni, credo che la cosa più importante
nell'area sia lo sviluppo economico, non la radioattività".
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