mercoledì 16 ottobre 2019

Elisir d'erbe Barathier

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L'elisir d'erbe Barathier è un elisir che ha questo nome dal 1905, precedentemente era conosciuto come Amaro Cozie (dalle Alpi Cozie).

Storia
L'attestazione dell'esistenza del prodotto è scritta in francese (lingua molto usata nella zona della Val Germanasca) nel 1902. Nasce solo per il consumo familiare a Pomaretto (TO) e successivamente ampliato per la commercializzazione.

Caratteristiche del prodotto
Sette qualità di erbe e fiori vengono fatte macerare in alcool e non distillati. Il colore può essere marrone scuro o giallo chiaro. Il colore più scuro si ottiene semplicemente aggiungendo del caramello di zucchero. La versione scura è quella originaria e sicuramente quella preferita dai consumatori.
  • Il sapore è amarognolo al primo assaggio per divenire più simile all'angelica e terminando in un misto tra liquirizia e noci.
  • La lavorazione è sostanzialmente immutata nel corso degli anni.
  • Non viene effettuata la distillazione per non distruggere i molti principi attivi che creano il caratteristico aroma dell'elisir.

Zona di produzione
Viene prodotto a Pomaretto (TO), partendo dalle erbe raccolte nella Val Germanasca, o nelle vallate vicine: Val Chisone, Valle di Susa e Val Pellice, ad un'altitudine variabile fra i 1500 e i 2600 metri.

Materiali e attrezzature
Il prodotto viene lasciato a macerare in contenitori non porosi quali vetro o acciaio inossidabile, solo il confezionamento avviene con metodi più meccanizzati.



lunedì 14 ottobre 2019

Elisir del prete

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Storia
Si hanno notizie sin dall'Ottocento, quando veniva descritto per le sue virtù digestive. Veniva considerato alla stregua di un medicinale per i benefici effetti che procurava.

Caratteristiche del prodotto
È un infuso concentrato di vari vegetali, lasciati macerare in una miscela di alcool e acqua. Filtrato più volte viene distillato fino ad ottenere una gradazione di circa 50°. È consumato come correttivo del caffè, oppure diluito in acqua calda e dolcificato con zucchero. Più recentemente si hanno testimonianze di una domanda il 17 ottobre 1927 a cura dell'"Ing. F. Simoni, Brevetti d'invenzione" di Torino verso il Ministero dell'Economia nazionale di Roma, per tutelare un elisir il cui marchio venne originariamente depositato il 10 febbraio 1891. Dopo vari brevetti, attualmente l'Elisir del Prete, è di proprietà della Albergian di Pragelato che ne ha rinnovato il brevetto nel 1993.

Zona di produzione
Viene prodotto a Pinerolo (TO)

Materiali e attrezzature
Le varie fasi di produzione vengono effettuate in contenitori di norma in acciaio inox, successivamente la commercializzazione del prodotto finale avviene in bottiglie di vetro da 70 cl.


domenica 13 ottobre 2019

Fernet

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Fernet è il nome generico di un tipo di bevanda della famiglia dei distillati. Nel linguaggio colloquiale questo nome si riferisce solitamente ad un tipo di liquore molto alcolico dal caratteristico sapore amaro, bevuto prevalentemente come digestivo o come aperitivo, a base di erbe aromatiche quali china, rabarbaro, genziana etc.

Storia
Il dottor Fernet
L'origine del termine fernet è ignota, ma già alla fine del Settecento è citata una ricetta per il rimedio del dottor Fernet (o Fermet). Era indicato come un elisir di lunga vita inventato dal medico svedese Fernet, morto all'età di 104 anni per una caduta da cavallo; grazie al preparato il nonno del medico sarebbe morto solo all'età di 130 anni, la madre a 107 e il padre a 110. Altre fonti ottocentesche indicano Vernet come possibile nome del medico svedese.
Successivamente il dottor Fernet subì una trasformazione e si legò a fatti più vicini nel tempo.
«In Cannobio è tradizione di un chimico svedese Vernet o Fernet, che accorse volontario in Italia a combattere nella guerra dell'indipendenza 1848 e 1849, e rifugiatosi dopo il disastro di Novara a Cannobio in casa di Branca Ferdinando lasciò a questi in ricompensa della ricevuta ospitalità la ricetta di composizione di un liquore, che poi il figlio Vittore fabbricò col nome di Fernet.»


Il colera
A partire dalla metà dell'Ottocento venne commercializzato da diversi produttori di Milano e di Torino. Nel 1863 iniziò la produzione in Milano della ditta Fratelli Branca come Fernet Branca.
Nel 1867, in occasione dell'epidemia del colera, il fernet divenne un noto rimedio.[6] Le pubblicità dell'epoca ne declamavano le virtù terapeutiche.
«Il Fernet Branca estingue la sete, facilita la digestione, stimola l'appetito, guarisce le febbri intermittenti, il mal di capo, capogiri, mali nervosi, mal di fegato, spleen, mal di mare, nausee in genere. Esso è vermifugo-anticolerico»
(Pubblicità del 1877)


Anche il Fernet Campari, ideato da Gaspare Campari, si presentava con caratteristiche terapeutiche similari.
Nel 1893 il dottor Costantino Gorini dell'Università di Pavia pubblicò uno studio sui diversi prodotti per la depurazione dell'acqua dal colera; i risultati mostravano l'inefficacia di rimedi comunemente utilizzati come il fernet.
«Sono assolutamente da rifiutarsi il Fernet Branca, il Ferro-china Bisleri e il Wermouth (sempre, lo ripeto, quando si tratti di usarli come correttivi di un'acqua sospetta). Sono raccomandabili invece l'anice, il mistrà e il tamarindo, mescolati all'acqua nella proporzione del 10% circa e lasciati in contatto con essa per 5-10 minuti.»
(C. Gorini, 1893)
Successivamente le varie marche di fernet pubblicizzarono il proprio prodotto principalmente come digestivo.

La diffusione in America del Sud
L'utilizzo del fernet contro il mal di mare rese immancabili le sue bottiglie nelle traversate degli emigranti. A partire dagli ultimi tre decenni dell'Ottocento fu notevolmente esportato in America del Sud con marche Fernet Branca e Fernet De Vecchi.
Nel 1908 il Fernet Branca era una delle principali importazioni in Argentina ma venivano segnalate varie produzioni locali come il Fernet Manzoni e il Fernet Cavour, entrambi di Buenos Aires.


sabato 12 ottobre 2019

Amaro 18 Isolabella

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L'Amaro 18 Isolabella è un amaro italiano, ideato nel 1871 da Egidio Isolabella ed ancor oggi prodotto (sebbene con non grande diffusione) dalla Illva di Saronno.

Storia
Fu ideato (un anno dopo rispetto al Mandarinetto, composto nel 1870) dalla ditta fondata da Egidio Isolabella, divenuta poi F.lli Isolabella & C. e infine E.Isolabella & Figlio, con sede in Milano in via Villoresi 13 ed in Corso Colombo 9. Veniva definito "aperitivo tonico" (ed il mandarinetto "superiore al curacao" e "liquore di gran lusso"). Oltre a questi, la casa produceva anche il Vermouth Bianco "High Life". Successivamente il Mandarinetto e l'Amaro 18 furono acquisiti (assieme al nome "Isolabella" divenuto anche marchio) dalla Illva di Saronno.

Caratteristiche
L'amaro si presenta di colore scuro e con gradazione alcolica del 30%, è ricavato dall'infusione di 18 tipi di erbe.

Degustazione
Si può consumare sia come digestivo sia come dissetante con l'aggiunta di seltz ed una scorza di limone. È inoltre utilizzabile nella preparazione di cocktail quali il Baby darling.

Altro
Il numero 18 ricorre spesso nella storia Isolabella: la licenza ottenuta per la produzione di vermut era la numero 18, 18 è la prima parte di 1870, anno in cui la casa si affermò con il Mandarinetto, l'amaro 18 Isolabella è composto da 18 erbe. Un testimonial televisivo per Carosello dell'Amaro 18 Isolabella è stato Corrado.


venerdì 11 ottobre 2019

Perché il Mezcal è lo Champagne dei distillati

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Il Mezcal è l'unico spirito con 1500 flavour. E a Roma c'è un posto dove potervi fare una cultura con gli unici ambasciatori del Mezcal non messicani.
CRISTIAN E ROBERTO, UNICI AMBASCIATORI DEL MEZCAL IN EUROPA.

"Immagina la Champagne. Ora immagina tutta l'Europa, fino all'Oceano Atlantico. Questo è, in proporzione, il terroir del Mezcal."
Si dice che "non sei tu a trovare il Mezcal, ma che è il Mezcal a trovare te". L'agave, come si crede in Messico, è una pianta magica. E così è stato con me. Una sera, a porte chiuse, ci siamo scolati nel ristorante di amici una bottiglia intera di questo Mezcal (una cosa che non avevo mai sentito nominare) con degli scheletri sull'etichetta. Era figo, era come una tequila ma più avvolgente e mi sono ubriacato con un grande sorriso.
Il Mezcal è una bevanda dalle radici antichissime. Si dice sia nato in Messico con l'avvento dei conquistatori spagnoli, in realtà il Mezcal - o meglio il suo antenato fermentato di agave- c'è dai tempi dei Maya. Chiamato Pulque o "La Bevanda Degli Dèi", perché ti faceva sballare, non era altro che una bevanda fatta con i succhi del cuore della pianta di agave. Solo che a lasciare questa "Aguamiel" (perché era zuccherina) all'aria per un paio di giorni diventava alcolico. Il bello è che non potevi essere punito se eri sbronzo, perché credevano che in te ci fosse la dèa Mayahuel. Quindi bastava essere sempre ubriachi. Insomma, la storia del Mezcal come lo conosciamo oggi inizia dall'arrivo degli spagnoli in Messico nel 17esimo secolo. Da quel momento è arrivato sulla terra il più incredibile dei distillati, non troppo conosciuto al grande pubblico fino a qualche anno fa. O meglio, conosciuto in quella schifezza di bottiglia con un verme dentro.
Il Mezcal è diverso dagli altri distillati perché è totalmente influenzato dal territorio, dalla mano del maestro mezcalero e ha un ventaglio di sapori e odori enorme
La domande da farsi sono: perché il Mezcal è un distillato completamente diverso dagli altri? E come mai racchiude innumerevoli mondi, leggende, sfaccettature e più di 1500 flavours diversi?
Per rispondere mi hanno aiutato Cristian Bugiada e Roberto Artusio, tra gli unici 5 "Ambasciatori del Mezcal" non messicani al mondo. Insieme hanno aperto La Punta Expendio De Agave, cocktail bar a Roma dove al centro di tutto ci sono il Mezcal, l'Agave e il Messico. Da quando hanno scoperto il mondo dei distillati di agave (per caso, perché è il Mezcal che ti trova) si sono fatti innumerevoli viaggi per le regioni messicane a conoscere i personaggi che lo producono, in posti spesso sperduti. Hanno toccato con mano la parte più importante di questo distillato: il territorio e i suoi maestri. E si sono riempiti le valigie di bottiglie introvabili, a volte messe dentro contenitori di fortuna.
Cristian, originario di Licata in Sicilia e Roberto, torinese, si conoscevano come bartender. "Io abitavo vicino a Freni e Frizioni, dove Cristian faceva il bartender", mi racconta Roberto. "Ho scoperto che Cristian stava maturando una curiosità sul Mezcal e io ero appassionato di distillati di Agave da anni. Così, prima di andare al lavoro al Jerry Thomas mi fermavo con lui e assaggiavamo diverse bottiglie di Mezcal commentandole." Poi continua: "Ci mancava un pezzo, però, dovevamo andare in Messico. Una settimana dopo avevamo i biglietti del nostro primo viaggio alla scoperta del Mezcal." Era il 2014. Da allora hanno fatto un viaggio ogni due mesi circa, hanno aperto un bar a tema mai visto prima e il 28 Aprile 2018 sono stati investiti del titolo di Ambasciatori del Mezcal. Gli hanno regalato un ritratto fatto da un artista messicano famoso.
La cosa interessante è che da un anno all'altro il prodotto che viene fuori può essere caratteristico grazie alla mano del maestro mezcalero, ma completamente diverso.
Quindi, perché il Mezcal è diverso dagli altri distillati? "Perché è totalmente influenzato dal territorio, dalla mano del maestro mezcalero e ha un ventaglio di sapori e odori enorme. Come lo champagne, ma molto di più", mi dice Cristian.
Vediamo come funziona.
Lezione numero uno. "Il Mezcal non è una Tequila, semmai la Tequila può essere Mezcal", mi dice Ricardo, un produttore messicano della regione del Chihuahua durante una serata a La Punta con 12 tra mezcaleros e gente del mondo del Mezcal. Le differenze sostanziali tra Tequila e Mezcal sono che per fare la prima, figlia del Mezcal, ha un territorio di produzione molto piccolo, la fermentazione - prima della distillazione - avviene senza le fibre della pianta di Agave e l’agave da usare è solo l’Azul. L'altra macro-differenza sta nel fatto che con la Tequila si può aggiungere zucchero (ma ci sono ottimi produttori di tequila che usano solo Agave), mentre il Mezcal DEVE essere 100% Agave. Essendo il territorio della Denominazione del Mezcal tre volte più grande e con più tipologie di agavi, naturalmente aumentano esponenzialmente i flavour e le caratteristiche. Più che ogni altro distillato al mondo.

Lezione numero due: un Mezcal ha una gradazione tra i 32 e i 54 gradi. Oltre si deve chiamare "Distillato di Agave".
Se bisogna trovare un difetto nel Mezcal, può essere una nota di fumo accentuata, che copre gli altri sapori. Però, come accade nel vino naturale, tanti difetti possono portare a un prodotto con un carattere unico

Lezione numero tre, la più importante: il Mezcal è figlio del territorio, dell'annata, del tipo di agave e della produzione. Non esiste un solo distillato altri in grado di esprimere il terroir come questo. Forse una manciata di Rum. "Immagina la Champagne", mi dice David Trampe, barman olandese esperto di Mezcal. "Ora immagina tutta l'Europa, fino all'Oceano Atlantico. Questo è, in proporzione, il terroir del Mezcal." Solo che, rispetto agli altri alcolici, rappresenta solo lo 0,4 delle esportazioni mondiali. In parte perché non si conosce molto, in parte perché è così tanto artigianale da rendere difficile conoscere anche solo le etichette. Alcuni produttori, quando Cristian e Roberto sono andati a trovarli, non sapevano nemmeno dove fosse l'Europa, per dire.
Di norma uno Champagne si differenzia da un altro per clima, suolo, sottosuolo e rilievi. E la stessa cosa avviene per il Mezcal. Solo che nel primo sono concesse tre tipologie di uva (Pinot Nero, Chardonnay e Pinot Meunier), mentre nel secondo le tipologie di Agave sono più di trenta. Più delle micro-categorie che i maestri mezcaleros usano e che sono leggermente diverse dal ceppo principale. "Magari hanno il retro della foglia diverso, o le spine in un'altra direzione", mi spiega Cristian Bugiada, ambasciatore del Mezcal. "Ci sono tantissime sfumature e il Consejo Regulador De Mezcal (Consiglio Regolatore Del Mezcal, ndt.) cerca di catalogare nuove piante, ma solo se almeno un numero sufficiente di mezcaleros dice di conoscere quella tipologia di Agave. O diventano pazzi."
I flavours, che possono essere tantissimi ("Io nelle degustazioni non dico mai cosa dovresti sentirci, è troppo complesso e personale", mi spiega Cristian), sono influenzati perlopiù dalla fermentazione. E dalla tipologia di agave, di una delle 30 varietà conosciute. E oltre a quelli floreali, minerali o fruttati che si possono riscontrare anche nel vino, ce ne sono altri riconducibili al mondo degli spiriti (cioccolato, pane, tabacco, dati anche dall'affumicatura) e alcuni che possiede solo il Mezcal. Come quello lattico e di formaggio, presente soprattutto al Nord. Dove invece è stato Roberto, in un viaggio on the road ai limiti della sicurezza. "Da quelle parti si usa la fermentazione con il Pulque, questo rende il prodotto più lattico, quasi "formaggioso". "
La cosa interessante è che da un anno all'altro il prodotto che viene fuori può essere caratteristico grazie alla mano del maestro mezcalero, ma completamente diverso. Se bisogna trovare un difetto nel Mezcal, può essere una nota di fumo accentuata, che copre gli altri sapori. Però, come accade nel vino naturale, tanti difetti possono portare a un prodotto con un carattere unico. "La parte della cottura è importantissima per questo," mi dice Cristian. "Pensa, una delle persone più esperte che conosca è una donna, che i mezcaleros chiamano jefa, capa. Lei sa esattamente come verrà il Mezcal guardando la cottura e la velocità di distillazione."
Come ho detto, il giorno che ho preparato questo pezzo ero insieme a 12 produttori di mezcal. All'1 di mattina ero a parlare ubriaco con i ragazzi di "Los Siete Misterios", i ragazzi che producono la bottiglia che mi ha introdotto in questo mondo, mentre Ricardo, produttore di un distillato di Agave del Chihuahua (che non si può chiamare Mezcal perché non fa parte della Denominazione d'Origine) mi abbracciava contento, sbronzo e sudato.
"Il terroir del Mezcal è pazzesco", mi ha detto David all'inizio delle interviste. "Basta cambiare cento metri in altezza, fermentare con o senza starter, usare un'acqua diversa, che ottieni un distillato totalmente differente. Rispetto allo Champagne hai un bouquet di 20.000 profumi diversi contro 1500."
"Per fare il Mezcal bisogna avere una doppia distillazione", mi spiega Edgar Ángeles Carren͂o, mezcalero di quarta generazione di Santa Caterina Minas - azienda Real Minero - nello stato di Oaxaca, che produce l'80% del Mezcal messicano. Questo paese è particolare perché la distillazione avviene solo con vasi di terracotta e perché si usano molte Agavi selvatiche. "Se vuoi puoi fare una terza distillazione per aggiungere un sapore in più, dopo e si chiama "Pechuga", che significa petto. Perché si mette il petto di una pollastra durante la distillazione."
Con Edgar, che rappresenta perfettamente il mondo del Mezcal, fatto di piccole produzioni, scarto zero e continuità nel tempo, ho chiacchierato tanto da finire mezzo taccuino. "Da noi c'è l'Agave Espadìn, la più comune, che può essere coltivata e ha un sapore neutro e poi diverse piante selvatiche. L'Americana, che ha un sapore dolce, di miele e la Karwinski, detta anche "Largo" o "Barril" (che ha un tronco cicciotto, tipo piccola palma), che invece ha note erbacee." Edgar, la cui bisnonna contrabbandava Mezcal negli anni del proibizionismo messicano (1940-1980) nascondendo le bottiglie sotto la gonna tradizionale, per distillare le piante selvatiche con l'alambicco di terracotta, ha bisogno del doppio della materia. Per questo la sua produzione può essere molto esclusiva. Parlare con lui è stato incredibile anche per capire quanto etico possa essere questo distillato: "Non si butta niente. La fibra si riusa per tappare i buchi dell'alambicco e per fare i mattoni, per esempio. Il problema nel mio territorio è che alcune piante selvatiche magari non ricompaiono per 20 anni. Quindi la mia azienda controlla anche l'impollinamento naturale da parte dei pipistrelli. E abbiamo avviato un progetto per costruire una biblioteca e dare la possibilità ai ragazzi di studiare."
Il Mezcal non ti ubriaca, il Mezcal te pone magico.
Il Mezcal è importante in Messico anche per un motivo prettamente sociale: accrescere il mercato di questo spirito significa dare lavoro a piccole popolazioni che, in altri casi, finirebbero tra le fila dei Narcos. "Una volta ho preso la macchina e mi sono fatto il Nord del Messico da solo," mi dice Roberto Artusio. "Per scoprire un altro Mezcal, quello non conosciuto in Europa, che viene quasi sempre da Oaxaca. E certamente al nord, che confina con gli USA, si sente la presenza dei Cartelli. Ci sono alcune regioni dove entrare è un bel rischio. Tipo il Michoacan, Puebla, Guerrero."
Il fatto che il Mezcal sia tutelato da un Consorzio Regolatore (sul sito potete trovare tutto: dai produttori alle zone, tipologie di Agave e un Magazine ben scritto) con cui si è creata una Denominazione d'Origine è una cosa molto importante: in questo modo si può fare ricerca, dare accesso a qualità e portare lavoro. Oltre che mettere ordine in un caos fatto di micro-zone, ognuno con le sue caratteristiche, leggende e idee.
Il Mezcal è anche un insieme di tradizione e novità, come nel caso di Eduardo e Julio Mestre di "Los Siete Misterios", che si sono innamorati di questo distillato durante i loro viaggi e se la portavano a Città del Messico dentro bottiglie di fortuna per farla assaggiare ai ristoratori (e berselo, ovviamente).
" 'Io so quando le Agavi sono mature perché mi parlano.' In che senso, maestro?" mi racconta Cristian di uno dei viaggi. " 'La mattina, quando sorge il sole passo nei campi e ascolto. Quando mi parlano so che sono pronte'." Era il rumore delle foglie che si aprivano scricchiolando.
Il Mezcal non ti ubriaca, il Mezcal te pone magico.

Sakè

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Il sakè o sake (dal giapponese , "bevanda alcolica") è una bevanda alcolica tipicamente giapponese ottenuta da un processo di fermentazione che coinvolge riso, acqua e spore koji. Per questo motivo viene anche chiamato "vino di riso". Non è classificabile tra i distillati né tra i liquori, e costituisce una categoria a parte.
Il vino di riso conosciuto in Occidente come "sakè" è di un tipo particolare chiamato nihonshu (日本酒 "alcol giapponese") in giapponese. In Giappone, la parola sake significa semplicemente bevanda alcolica, e a seconda della regione può assumere vari significati specifici. Nel Kyūshū meridionale, sake si riferisce di solito a una bevanda distillata, lo shochu di patate (芋焼酎 imojōchū). Lo shōchū è un distillato fatto con la canna da zucchero. Sake è un termine che può essere usato anche per un'altra bevanda distillata di Okinawa, l'awamori (泡盛), letteralmente "cupola trasparente", o kusu, "vecchia bevanda". Queste altre forme di sakè sono distillate a partire da un riso a chicco lungo e da kurokoji (黒麹 kurokōji), "koji nero".

Storia
La storia del sakè non è ben documentata e ci sono molteplici teorie su come possa essere stato inventato. Un'ipotesi sostiene che la pratica della fermentazione del riso abbia avuto origine in Cina, lungo il Chang Jiang, attorno al quinto millennio a.C., e sia stata successivamente esportata in Giappone. Un'altra ipotesi fa risalire la fermentazione del sake al Giappone del terzo secolo, con l'avvento della coltivazione del riso in umido. La combinazione di acqua e riso avrebbe portato a muffa e fermentazione. Il primo sake venne chiamato kuchikami no sake (口噛みの酒), o "saké masticato in bocca", ed era fatto con il riso di un intero villaggio, castagne, miglio, ghiande, e preparato sputando il miscuglio in un tino.
Gli enzimi della saliva permisero agli amidi di saccarificare (convertendosi in zucchero). In seguito a questo dolce miscuglio si aggiunse grano appena cotto e così poté fermentarsi in modo naturale. Presumibilmente il miglior sake prodotto in questo modo derivava da giovani ragazze vergini. Si annota per l'uso della masticazione che un comportamento analogo, per introdurre enzimi atti alla trasformazione del prodotto per lo stesso scopo, (anche in questo caso fatto da ragazze, o da vecchie), e usato da millenni per produrre la chicha (bevanda alcolica derivata dal mais) in Brasile, Bolivia, Perù ed Ecuador. È probabile che questa prima forma di sake avesse un basso contenuto alcolico e venisse consumata come porridge. Questo metodo è stato adottato anche dai nativi americani; vedi il cauim, e il pulque. Il vino di miglio cinese, xǐao mǐ jǐu (小米酒), prodotto allo stesso modo, è nominato in alcune iscrizioni del XIV secolo, essendo stato offerto agli dei in rituali religiosi.
Più tardi, approssimativamente dall'VIII secolo, il vino di riso, mǐ jǐu (米酒), divenne popolare in Cina con una formula quasi identica a quella del più tardo sake giapponese. Secoli dopo, la masticatura divenne inutile con la scoperta del koji-kin (麹菌 Aspergillus oryzae?), una muffa i cui enzimi convertono l'amido presente nel riso in zucchero, che è anche usato per fare amazake, miso, nattō e salsa di soia. Il riso innestato con koji-kin è chiamato kome-koji (米麹), o riso di malto. Una miscela di lievito, o shubo (酒母?), è quindi aggiunta per convertire gli zuccheri in etanolo. Questo sviluppo può aumentare di molto il tasso di alcol del sake (18%-25% per vol.); come l'amido è convertito in zucchero dal koji, gli zuccheri sono convertiti in alcol a partire dal lievito in un processo istantaneo. Il koji-kin è stato scoperto più probabilmente per caso. Le spore di koji e il lievito che fluttua nell'aria finirono in una densa mistura di riso e acqua rimasta fuori.
La fermentazione risultante creò un porridge di sake non diverso dal kuchikami no sake ma senza il problema della masticatura di un intero villaggio. Probabilmente questo porridge non aveva il miglior sapore ma l'ebbrezza era sufficiente per far sì che la gente continuasse a interessarsi a produrne. Un po' di questa miscela sarebbe stata mantenuta come punto di partenza per il gruppo seguente. È da notare che l'azione congiunta di una muffa (Aspergillus) e di un Saccaromicete specifico per il riso, (probabilmente Saccaromices orizae) produce una rapida trasformazione degli amidi in zuccheri e quindi questi in alcool, lo stesso non accade con le fermentazioni comuni, ad esempio quelle sostenute da Saccaromices cerevisiae (birra, vino), dove la trasformazione da amidi in zuccheri quando necessaria, non ottenuta da muffe, è difficoltosa e dove la gradazioni alcoliche massime possibili (senza distillazione) sono più limitate, ad esempio per il vino d'uva la gradazione alcolica massima possibile è circa 15% per vol.
Nel VII secolo a.C. esperimenti e tecniche venute dalla Cina diedero origine a un sake di maggior qualità. Col tempo il sake divenne sufficientemente popolare che al palazzo imperiale di Kyōto (poi capitale del Giappone) fu istituito un organismo per la sua preparazione. Questo ebbe come conseguenza la nascita dei birrai di sake a tempo pieno, e questi artigiani aprirono la via per molti sviluppi nella tecnica. Fu appunto durante l'era Heian (794-1185) che vennero aggiunte tre nuove fasi al processo di fermentazione (una tecnica per aumentare ancora il livello di alcol e ridurre le possibilità di inasprimento), esempio delle migliorie apportate in questo periodo. Nei successivi 500 anni la qualità e le tecniche usate nella produzione del sake migliorarono costantemente. Divenne usanza la preparazione di una miscela di partenza o "moto" per coltivare il maggior numero possibile di cellule di lievito prima della fabbricazione.
I birrai avevano anche la capacità di isolare il koji per la prima volta, e perciò seppero controllare con coerenza la saccarificazione (conversione dell'amido in zucchero) del riso. Attraverso osservazioni, esperimenti ed errori, si sviluppò anche una forma di pastorizzazione. Partite di sake che iniziarono a inasprirsi a causa di batteri durante i mesi estivi furono versate dalle loro botti in serbatoi e riscaldate. Comunque, il risultante sake pastorizzato sarebbe poi tornato nelle botti infettate dai batteri. Di qui il sake avrebbe assunto un sapore più acido, e quando fosse arrivato l'autunno sarebbe stato pessimo. Le ragioni per le quali avvenisse la pastorizzazione e come si potesse migliorare la qualità non sarebbero state comprese finché Louis Pasteur non avesse fatto la sua scoperta circa 500 anni più tardi.
Durante la Restaurazione Meiji furono scritte delle leggi che permisero a chiunque avesse capacità economica e conoscenze pratiche di mettere su e dirigere una fabbrica di sake. Nacquero così in un solo anno circa 30.000 fabbriche in tutto il Paese. Ad ogni modo, col passare degli anni il governo impose sempre più tasse sull'industria del sake e lentamente il numero delle fabbriche si ridusse a 8.000. La maggior parte delle fabbriche che si svilupparono e sopravvissero a questo periodo appartenevano a ricchi proprietari terrieri. I latifondisti che possedevano raccolti di riso avrebbero avuto ancora del riso a fine stagione e, piuttosto che lasciare che queste scorte di riso rimanessero inutilizzate, le avrebbero trasportate alle loro fabbriche. La fabbrica di famiglia con maggiore successo fra queste è attiva ancora oggi.
Nel Novecento la tecnologia di produzione del sake fece passi da gigante. Nel 1904 il governo aprì l'istituto per la ricerca nella produzione del sake, e nel 1907 si tenne il primo concorso di degustazione di sake. Furono isolate specifiche varietà di lieviti selezionate per le loro proprietà e arrivarono serbatoi in acciaio ricoperti di smalto. Il governo iniziò ad acclamare l'uso di serbatoi smaltati perché facili da pulire, di durata eterna, e privi di problemi batterici (il governò considerò le botti in legno "anti-igieniche" a causa dei potenziali batteri viventi dentro al legno). Sebbene tutto ciò sia vero, il governo pretese anche più tasse dai produttori perché il legno delle botti succhiava una quantità significativa di sake (attorno al 3%) che avrebbe dovuto essere tassata. Questa fu la fine dell'era delle botti di sake in legno, e il loro uso scomparve totalmente. Durante la guerra russo-giapponese del 1904-1905 il governo bandì la produzione di sake in casa, che non era soggetta ad alcuna tassa, per far aumentare ancora di più le entrate fiscali dovute al sake, che in quel periodo costituivano già un sorprendente 30%.
Questa fu la fine del cosiddetto "doboroku" (sake fatto in casa): questa legge rimane infatti ancora oggi malgrado le vendite di sake costituiscano attualmente solo il 2% delle entrate del governo. Quando scoppiò la seconda guerra mondiale l'industria del sake subì un pesante colpo dopo che il governo pose un freno all'uso del riso per la produzione di alcolici. La maggior parte del riso cresciuto in questo periodo venne usato per le fatiche di guerra e questo, in unione con molti altri problemi, fu il destino di migliaia di aziende in tutto il Giappone. In precedenza era stato scoperto che piccole dosi di alcol potevano essere aggiunte al sake per migliorarne l'aroma e la struttura. Dal decreto del governo, alcol puro e glucosio venivano aggiunti a piccole quantità di miscela di riso, aumentando la resa di quattro volte tanto. Il 95% del sake di oggi è prodotto usando questo tecnica, rimasta dagli anni della guerra. C'erano anche alcune fabbriche capaci di produrre sake senza riso. Naturalmente, in questo periodo ne risentì molto la qualità.
Dopo la guerra le fabbriche di sake iniziarono a riformarsi poco alla volta, e la qualità del sake crebbe gradualmente. Ad ogni modo cominciarono a essere sempre più popolari in Giappone la birra, il vino e i superalcolici, e negli anni 1960 per la prima volta il consumo di birra superò quello di sake. Il consumo di sake continuò a diminuire, ma in contrasto la qualità migliorò notevolmente. Oggi la qualità del sake è al suo apogeo, e questo alcolico è diventato effettivamente una bevanda mondiale con la nascita di alcune fabbriche nel Sud-Est asiatico, in Sud America, Nord America, Cina e Australia. Inoltre sempre più aziende stanno tornando ai vecchi metodi di produzione. Mentre il resto del mondo sta forse bevendo sempre più sake, e la qualità è aumentata, ci sono delle difficoltà per l'industria del sake. In Giappone la vendita di sake sta ancora scendendo e non è sicuro che l'esportazione del sake in altri Paesi possa salvare le aziende giapponesi. Infatti attualmente ci sono circa 1500 aziende in Giappone, laddove nel 1988 ce n'erano circa 2500.

Preparazione
Occorre procurarsi una tokkuri (una bottiglietta per sakè), versarvi dentro il sakè e coprirla con una pellicola, per non disperderne l'aroma. Immergere in una pentola con l'acqua preriscaldata (ma appena tiepida), lasciarla a fuoco lento per circa 4-5 min. in maniera che raggiunga la temperatura di 35-40°. Occorre fare attenzione che la temperatura non superi i 50°, altrimenti l'aroma e il gusto ne risultano alterati, mentre si scalda afferrare il tokkuri per il collo e agitare in maniera che si riscaldi uniformemente e non solo dal basso. Va notato che le varieta' di sake di alta qualità (Ginjo, Daiginjo) vengono viceversa servite fredde per non alterarne i delicati aromi fruttati e floreali. Il riscaldamento deve essere dunque tendenzialmente riservato solo ai prodotti di qualità inferiore.

Tipologie di sakè
Esistono due principali tipi di sake: il futsuu-shu (普通酒) ovvero il "sake normale" e il tokutei meishoshu (特定名称酒), il "sake per occasioni speciali".
Il futsuu-shu non possiede i requisiti per alcun livello di sake di designazione speciale. È l'equivalente del nostro vino da tavola e rappresenta oltre il 75% di tutto il sake prodotto. D'altra parte il tokutei meishoshu o "sake per occasioni speciali" è contraddistinto dalla certificazione di raffinamento (macinatura) del riso ovvero della purezza (restrizione nell'aggiungere alcool distillato). Raffinare il riso è importante in quanto la parte interna dei chicchi contiene l'amido (ciò che fermenta) mentre la parte esterna contiene oli e proteine, che tendono a lasciare aromi strani o spiacevoli nel prodotto finito. Raffinare il riso rimuove la parte esterna del chicco, lasciando solamente il cuore d'amido.


 
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