Se il sapore del whisky moderno vi scalda l’anima, il suo antenato del Vecchio West probabilmente ve l’avrebbe bruciata. Il whisky che scorreva nei saloon polverosi di Dodge City o nei baracconi di Tombstone tra la metà e la fine dell’Ottocento era ben lontano dall’essere un distillato raffinato: era spesso un intruglio ruvido, pericoloso e profondamente radicato nella cultura brutale della frontiera.
Il whisky nel selvaggio West era tanto una merce quanto un’arma sociale. Le sue origini risalgono ai commerci lungo il Mississippi: acquistato a basso costo a St. Louis per circa 20 centesimi al gallone, veniva diluito con acqua del fiume – talvolta contaminata – durante il trasporto verso ovest. Una volta raggiunti i remoti avamposti commerciali, il prezzo lievitava: una pinta poteva costare fino a 5 dollari, una cifra esorbitante per l’epoca. Per i trapper e i cercatori d’oro, quella bevanda densa e spesso amara era parte integrante dello scambio, usata tanto per socializzare quanto per sedare le fatiche e i traumi di una vita ai margini della civiltà.
Nei saloon, la qualità del whisky dipendeva più dalla posizione geografica che dalla ricetta. Le grandi città dell’Ovest, come Virginia City e Denver, riuscivano talvolta a importare bottiglie di bourbon autentico da distillerie orientali. Tuttavia, nei campi minerari e nei villaggi di frontiera, il cosiddetto “rotgut whisky” (letteralmente “whisky spaccabudella”) regnava sovrano. Questa bevanda casalinga era ottenuta con cereali e melassa di bassa qualità, e spesso corretta con ingredienti decisamente insoliti per aumentarne l’effetto e il volume: tabacco nero, peperoncini rossi, acqua fangosa di fiume e, nella variante più folkloristica, addirittura teste di serpente a sonagli.
Una di queste ricette era nota come “Ol’ Snakehead”, che prevedeva – tra gli altri ingredienti – una libbra di tabacco da masticare, mezzo chilo di melassa, due teste di serpente per “dargli spirito” e un ferro di cavallo come strumento empirico di valutazione: se affondava, il whisky non era pronto. Se galleggiava, era tempo di servire.
Ma le implicazioni del commercio del whisky andavano ben oltre il gusto o la gradazione alcolica. Le relazioni con le popolazioni native, ad esempio, furono segnate da un uso strumentale e spesso tossico della bevanda. Gli indigeni ricevevano il peggiore dei whisky: non solo diluito, ma addirittura adulterato con sostanze velenose come acido solforico, stricnina, cocculus indicus, trementina e tabacco. Questa pratica spietata e disonesta provocò tragedie, avvelenamenti e fu spesso all'origine di feroci scontri tra coloni e tribù locali.
Nonostante ciò, il whisky divenne parte integrante del mito della frontiera. Nei saloon, il bicchiere colmo rappresentava molto più di una bevanda: era la promessa di un momento di tregua, una pausa tra le sparatorie e le giornate di lavoro estenuanti. Per molti pionieri, era il primo – e spesso l’unico – lusso disponibile.
Naturalmente, accanto al whisky scorreva fiume anche la birra, molto più comune e meno pericolosa. Tuttavia, nelle cronache e nell’immaginario, è il whisky a dominare: liscio, torbido e implacabile come i deserti che lo circondavano.
Oggi, alcune distillerie artigianali si ispirano a quelle ricette d’epoca per riproporre – in versione depurata e sicura – “whisky da saloon” dal sapore forte e affumicato. Se ne bevete uno e vi sembra “forte come l’inferno”, forse è solo un assaggio del Vecchio West, dove ogni sorso poteva essere un rischio… o una rivelazione.
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