sabato 20 aprile 2024

L’arte dimenticata della birra britannica: perché la Real Ale richiede mani esperte

 

Per milioni di persone, ordinare una pinta in un pub britannico è un gesto quotidiano, quasi istintivo. Ma dietro il semplice atto di spillare una birra si cela un mondo fatto di precisione, tradizione e una sorprendente complessità. E nel cuore di questo mondo c’è lei, la real ale, regina non incoronata della birra britannica, che più di ogni altra incarna l’identità e l’orgoglio della cultura pub. Ma perché questa birra ha bisogno di cure così speciali? Perché servirla è considerato, ancora oggi, una vera arte?

A differenza delle birre industriali moderne, la real ale — così definita dalla Campaign for Real Ale (CAMRA)non è filtrata, non è pastorizzata e completa la sua fermentazione nella stessa botte in cui verrà servita. Ciò significa che quando arriva nella cantina del pub, è ancora un organismo vivo, che evolve, matura e può — se maltrattato — guastarsi nel giro di ore.

La gestione della real ale comincia nel momento esatto in cui la botte viene consegnata. “È stata scossa su un camion, bisogna lasciarla riposare almeno 24 ore,” racconta un ex cantiniere con anni di esperienza e una conoscenza quasi liturgica del processo. La botte, che può pesare fino a 72 kg da piena, va sistemata su un supporto inclinato che permette alla birra di essere spillata correttamente, con i lieviti depositati al fondo. Una manovra che richiede abilità, forza fisica e non poca attenzione.

Ogni fase conta: lo sfiato, la pulizia dei tappi e degli strumenti, il posizionamento dello spile (un piccolo rubinetto di legno o metallo) e soprattutto la valutazione del momento esatto in cui la birra è pronta per essere servita. “Se sfiati troppo presto,” spiega il cantiniere, “ti ritrovi con una fontana di birra e litri sprecati. Troppo tardi, e la birra è ancora turbolenta, con i lieviti in sospensione.” La real ale, come il vino non filtrato, è un equilibrio delicatissimo tra natura e tecnica.

Il servizio è altrettanto critico. Niente spine pressurizzate o CO₂ artificiale: la birra viene pompata a mano, tramite un beer engine, con colpi decisi e regolari. In molte regioni del Regno Unito, come lo Yorkshire, i clienti si aspettano una schiuma cremosa e persistente, ottenuta grazie allo sparkler, un piccolo diffusore che forza la birra attraverso dei fori producendo microbolle. Regolarlo male può rovinare l’esperienza di degustazione.

Ma perché tutto questo influenza l’opinione pubblica sulla birra britannica? Perché il modo in cui una birra viene servita può decretarne il successo o la rovina. Una real ale ben gestita è un prodotto straordinario: profonda, complessa, viva. Una mal gestita diventa torbida, acida, imbevibile. Non a caso, molti pub si giocano la reputazione sulla qualità delle loro birre in pompa. “Un pub vive o muore in base a come serve la birra,” afferma senza mezzi termini il cantiniere.

Anche per questo la figura del cantiniere è cruciale e troppo spesso sottovalutata. È lui a stabilire i tempi di maturazione, a garantire la pulizia quotidiana delle linee, a coordinare il consumo per evitare sprechi. Una birra real ale ha una finestra di consumo ottimale di appena tre giorni dopo l’apertura. Servirla oltre quel termine è un disservizio al cliente e un insulto al birrificio.

Eppure, in un mondo sempre più dominato da lager standardizzate e birre industriali, la real ale rappresenta un baluardo di autenticità. Non solo è parte integrante del patrimonio culturale britannico — tanto da aver avuto un ruolo nella formazione della CAMRA, un movimento che ha salvato centinaia di birrifici artigianali negli anni ’70 — ma è anche una sfida lanciata a chi considera la birra solo una bevanda da consumare fredda e gassata.

Paradossalmente, proprio la sua natura esigente la rende poco compresa dai consumatori occasionali e spesso snobbata nei locali meno specializzati. Chi la serve male — per inesperienza, disinteresse o semplice mancanza di formazione — rischia di far passare un prodotto nobile per un liquido difettoso. E così, l’opinione pubblica sulla birra britannica ne risente, scivolando verso la percezione di un prodotto datato, difficile, poco attraente. Ma la verità è che, se trattata con rispetto, la real ale offre una delle esperienze di bevuta più ricche e gratificanti al mondo.

In tempi in cui si celebra l’artigianalità in ogni ambito, dalla panificazione al caffè, è forse ora di riconoscere che anche spillare una pinta può essere un atto d’arte. E che la birra britannica, per essere apprezzata davvero, merita mani esperte, pazienza e soprattutto rispetto.



venerdì 19 aprile 2024

Quanto era forte il rum ai tempi dei pirati? Il “Kill-Devil” che bruciava gola e stomaco

Nel folklore popolare, pochi simboli evocano l’epoca d’oro della pirateria quanto una bottiglia di rum. Eppure, ciò che oggi troviamo sugli scaffali dei bar è un lontano cugino addomesticato di ciò che i pirati effettivamente bevevano. Il rum del XVII e XVIII secolo — il cosiddetto Kill-Devil, o "uccidi-diavolo" — era una bevanda brutale, grezza e pericolosamente potente.

Quella dei pirati non era certo una cultura del bere raffinata. Il rum dell’epoca era il risultato diretto della distillazione della melassa, un sottoprodotto della lavorazione dello zucchero di canna, eseguita con tecniche rudimentali nei Caraibi e nelle colonie. Non esisteva alcun processo di invecchiamento, né filtri sofisticati per migliorarne il gusto. Veniva spillato direttamente dalle botti e consumato immediatamente: torbido, forte e irregolare.

La gradazione alcolica? Notevole. In assenza di strumenti di misurazione affidabili, la Royal Navy britannica sviluppò un metodo empirico per testare la “forza” del rum. Era semplice: si versava un po’ di rum su della polvere da sparo. Se la polvere si accendeva comunque, anche inumidita, la bevanda era “proof” — ovvero sufficientemente forte da meritare fiducia. Questo metodo rudimentale definiva una soglia minima: circa il 57% di alcol in volume. Qualsiasi cosa al di sotto era considerata inadatta, persino per i marinai.

Molti dei rum consumati dai pirati — e da marinai e soldati — superavano di gran lunga quella soglia. Bottiglie che oggi troveremmo inaccettabili o pericolose erano allora la norma: 60%, 65%, persino 70% di gradazione alcolica. In assenza di refrigerazione, pastorizzazione o alternative più sicure, il rum era anche una forma di disinfezione interna. Ma soprattutto era una fuga: una scossa potente, capace di riscaldare lo stomaco e intorpidire il corpo in pochi sorsi. Non si beveva per il piacere del palato, ma per sopportare la brutalità della vita in mare.

In effetti, il rum era una valuta sociale e politica. Nelle navi della Marina britannica, ad esempio, veniva distribuito quotidianamente sotto forma di razione, spesso miscelato con acqua per creare il celebre “grog”. Questo non solo ne riduceva la potenza, ma aiutava a sterilizzare l'acqua stagnante a bordo. Ma tra i pirati, che vivevano fuori da qualsiasi gerarchia ufficiale, il rum scorreva liberamente, spesso come parte integrante di una paga o come bottino spartito.

Bere quel tipo di rum non era un gesto ricreativo. Era un atto quasi violento. Bruciava la gola, avvolgeva lo stomaco in un calore ruvido, e lo si ingeriva rapidamente — non per gusto, ma per necessità. Non c’erano bicchieri da degustazione né discorsi sul “bouquet” o la “persistenza”. C’era solo fuoco liquido, versato e ingoiato in fretta, tra una razzia e una burrasca.

Il rum dell’era dei pirati non era una bevanda da intenditori. Era una sostanza estrema per tempi estremi: rozza, potente, scomoda. Eppure, nella sua crudezza, rappresentava la vita dura e senza compromessi di chi lo beveva. Oggi possiamo trovarne delle riproduzioni storiche — rum overproof, non diluiti, che raggiungono anche il 75% vol. — ma nessuno, nemmeno il più intrepido dei bevitori moderni, dovrebbe scambiare un sorso di quei liquidi ardenti per un’esperienza romantica. Perché a bordo di una nave pirata, il rum era molto più che una bevanda. Era una prova di sopravvivenza.


giovedì 18 aprile 2024

Espresso, ristretto, lungo e cappuccino: guida chiara alle differenze fondamentali del caffè italiano

Nel cuore della cultura italiana, il caffè non è solo una bevanda, ma un rito, un’esperienza che varia nelle sue forme più classiche. Capire la differenza tra espresso, ristretto, lungo e cappuccino è essenziale per chiunque voglia apprezzare appieno la tradizione del caffè italiano.

L’espresso rappresenta la base, il re indiscusso del caffè al bar. Preparato con una macchina specifica, si ottiene forzando acqua calda ad alta pressione attraverso caffè finemente macinato. Servito in tazzina piccola, riempie circa metà della tazza, offrendo un gusto intenso e concentrato, privo di aggiunte. È la forma pura del caffè italiano.

Il ristretto, o “corto”, è una variante dell’espresso. Si ottiene estraendo il caffè in un tempo più breve, producendo una quantità minore di liquido – circa un terzo della tazza – ma con un sapore più concentrato e intenso. Nonostante l’intensità, contiene meno caffeina dell’espresso normale perché l’estrazione è più rapida.

Al contrario, il lungo prevede un’estrazione più prolungata, riempiendo quasi tutta la tazza. Il risultato è un caffè meno intenso nel sapore ma più ricco di caffeina, ideale per chi preferisce un gusto più delicato e una bevanda più abbondante.

Il cappuccino si distingue dagli altri perché non è solo caffè, ma un mix di espresso e latte. In proporzioni quasi uguali, si unisce all’espresso il latte caldo e la sua schiuma densa, creando una bevanda cremosa e vellutata, generalmente servita in tazza più grande. Tradizionalmente consumato a colazione, il cappuccino è più simile a un alimento che a una semplice bevanda e raramente si beve dopo i pasti.

Oltre a queste, esistono numerose altre varianti come il doppio espresso:

  • Normale (riempie la metà inferiore della tazza - in Italia è solo il caffè);

  • Lungo, preparato più a lungo (riempie la maggior parte della tazza, ha un sapore meno intenso, contiene più caffeina);

  • Corto, detto anche ristretto, preparato per un tempo più breve (riempie il terzo inferiore della tazza, più sapore, meno caffeina);

  • Doppio, due shot regolari;

  • Macchiato, normale con un goccio di latte schiumato;

  • Schiumato, normale con schiuma di latte ma senza latte;

  • Marocco o marocchino, macchiato in tazza di vetro e con cacao in polvere;

  • Macchiato freddo, con latte freddo a piacere (ti viene servito l'espresso normale con un piccolo barattolo di latte freddo a parte, puoi aggiungere la quantità di latte che desideri);

  • Americano: espresso in tazza grande servito con un barattolo di acqua calda per diluirlo.

  • Caffè corretto: normale espresso con un goccio (o più) di grappa (o altro liquore).

  • Risintin o resentin: mezza dose di grappa versata nella tazzina da caffè usata per sciacquarla e aromatizzare la grappa con i residui del caffè.

  • Caffè leccese: espresso con ghiaccio e una dose di denso latte di mandorla italiano. (Non aggiungere zucchero, è già molto dolce. Non tutti i posti lo preparano.)

  • Caffè shakerato: espresso, sciroppo di zucchero, tanto ghiaccio, a volte qualche goccia di estratto alcolico alla vaniglia, il tutto in uno shaker, shakerato bene, filtrato e servito in una coppetta Martini. Un drink estivo analcolico o minimamente alcolico, molto amato.

  • Caffè sospeso: un caffè che si paga, non si beve e si lascia a una persona che non si incontrerà mai ma che il barista sa essere economicamente svantaggiata. Una tradizione napoletana. (Ancora Carlo Volpe)

Questi sono tutti i classici caffè da bar italiani. Poi ci sono i prodotti a base di latte, percepiti più come cibo che come bevande:

  • Cappuccino, parti uguali di caffè espresso e latte schiumato in una tazza grande (principalmente un alimento per la colazione, può essere consumato come spuntino pomeridiano, mai dopo i pasti);

  • Latte macchiato, latte schiumato con una dose di caffè espresso.

L'espresso può essere anche disponibile come dec (decaffeinato), al ginseng (per una sferzata di energia, ha il sapore di una medicina) e orzo (orzo, sotto), un surrogato del caffè per bambini e per chi non vuole assolutamente assumere caffeina (l'orzo può essere piccolo o grande). Alcuni dei caffè sopra citati sono disponibili anche in altre soluzioni (come l'orzo macchiato, ad esempio).

La differenza principale tra espresso, ristretto, lungo e cappuccino risiede nel tempo di estrazione, nella quantità e nella presenza o meno del latte, elementi che plasmano l’esperienza di gusto, la forza e la cremosità di ogni tazza. La scelta dipende dal momento della giornata, dal gusto personale e dalla tradizione che si vuole celebrare.



mercoledì 17 aprile 2024

La Pepsi è cambiata? Un viaggio tra ricordi, gusto e la battaglia segreta dei dolcificanti

Da bambino, il sapore della Pepsi era una certezza: forte, deciso, ben distinto dalla Coca-Cola, che appariva più morbida e rotonda. Era l’estate, l’odore di catrame caldo nelle strade della città, la bottiglia di vetro fredda tra le mani — un momento semplice e indimenticabile. Poi, anni dopo, la Pepsi sembrava diversa, quasi un’eco della Coca-Cola di una volta, come se la formula fosse stata manomessa o, più probabilmente, come se la percezione stessa del gusto fosse cambiata.

Ma cosa è successo davvero?

Le ricette delle grandi bevande gassate, come Pepsi e Coca-Cola, sono gelosamente custodite come segreti di Stato, rinchiusi in caveau inaccessibili. La formula di base rimane invariata, ma ciò che può davvero modificare il sapore è l’origine e il tipo di dolcificanti impiegati: zucchero di canna puro in alcune aree, sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio in altre. E proprio qui la lingua – e le papille gustative – notano la differenza.

Inoltre, il tempo cambia tutto, e non solo i prodotti. Le papille gustative invecchiano, si adattano, si confondono, e il ricordo di un sapore preciso può diventare sfocato, distorto o idealizzato.

Ma la vera essenza di quella bevanda — il suo cuore pulsante — non è solo nella ricetta o nei dolcificanti. È nella battaglia per mantenere quell’identità unica, quella linfa vitale che rende Pepsi Pepsi, e che nessuno è disposto a compromettere. Questo è il messaggio che i grandi produttori vogliono far arrivare: il gusto non si vende, si protegge con la stessa passione con cui si difende un impero.

Alla fine, che sia una questione di dolcificanti, percezione o memoria, il gusto di un prodotto iconico come Pepsi rimane un mistero personale, capace di evocare emozioni e ricordi tanto forti quanto la sua frizzantezza.



martedì 16 aprile 2024

Cointreau: Il Liquore all’Arancia che Ha Rivoluzionato il Mondo dei Cocktail

Cointreau non è un liquore a base di brandy, ma un celebre liquore francese all’arancia, noto per la sua purezza e intensità aromatica. Prodotto a partire da alcool neutro e bucce di arance amare, offre un sapore fresco e distintivo che lo rende un ingrediente irrinunciabile in molti cocktail classici come il Margarita, il Cosmopolitan e il Sidecar.

Esiste però una variante, il Cointreau Noir, che combina il liquore all’arancia con Cognac Fine Champagne Rémy Martin, introducendo così la componente di brandy.

Storicamente, Cointreau ha coniato il termine “triple sec” per descrivere i liquori all’arancia, anche se oggi preferisce non usarlo per distinguersi dai prodotti più economici presenti sul mercato.

Dolce e aromatico, il Cointreau è raramente consumato liscio, ma trova la sua massima espressione nel mixology e nella pasticceria, conferendo a cocktail e dessert un carattere unico e raffinato. Tra i concorrenti di alto livello si segnalano Grand Marnier, Pierre Ferrand e Bauchant, ognuno con le proprie peculiarità e basi alcoliche.



lunedì 15 aprile 2024

Budweiser: ci sono davvero motivi per non berla?


Nel mondo della birra esistono due grandi categorie di appassionati: quelli che bevono con piacere ciò che trovano e quelli che si sentono in dovere di analizzare ogni sorso con la serietà di un sommelier d’annata. In mezzo a questi estremi ci sono i consumatori quotidiani, che vogliono semplicemente godersi una buona birra in compagnia, senza per forza dover leggere la carta degli aromi o disquisire sulle varietà di luppolo.

In questo contesto, la Budweiser è spesso bersaglio di critiche. Alcuni la considerano una birra commerciale senza carattere, altri la difendono con naturalezza. Ma ci sono davvero motivi concreti per evitarla? E, soprattutto, conta davvero il giudizio degli altri quando si tratta di gusti personali?

La Budweiser nasce nel 1876 a St. Louis, Missouri, prodotta da Adolphus Busch e dalla Anheuser-Busch Brewing Association. L’ispirazione arrivava dalle birre boeme a bassa fermentazione, in particolare da quelle della città ceca di České Budějovice (in tedesco Budweis, da cui il nome). Nel tempo, Budweiser è diventata una delle birre più vendute al mondo, simbolo della grande produzione industriale americana.

È una lager chiara, leggera, beverina, con un grado alcolico moderato (5%) e un profilo gustativo semplice, pensato per piacere a un pubblico molto ampio. La ricetta prevede l’uso di malto d’orzo, riso (per alleggerire il corpo), luppolo e lievito selezionato.

Spesso i motivi per cui qualcuno sconsiglia la Bud non sono legati al gusto, ma piuttosto al contesto culturale. Molti appassionati di birra artigianale guardano con sospetto i grandi marchi, percepiti come simboli di omologazione e di un mercato dominato da interessi commerciali.

In verità, se si giudica la Budweiser dal punto di vista strettamente gustativo, non si può dire che sia una birra mal fatta. È coerente con ciò che vuole essere: leggera, dissetante, adatta a essere bevuta in quantità durante eventi sociali. Non ha difetti tecnici evidenti, e per qualcuno rappresenta un sapore familiare e rassicurante.

Ci sono molte situazioni in cui la Budweiser è una scelta naturale:

  • Grigliate e barbecue: Se sei invitato a una grigliata in giardino e nel frigorifero ci sono solo lattine di Bud, non c’è alcun motivo di rifiutare. È una birra pensata proprio per questi momenti informali.

  • Feste e incontri sportivi: Nelle grandi riunioni tra amici o in occasione di una partita di calcio o di football, una Bud fredda può essere esattamente ciò che serve.

  • Serate senza pretese: Dopo una lunga giornata, bere qualcosa di semplice senza dover riflettere troppo è più che legittimo. Non tutte le birre devono richiedere attenzione o discussioni tecniche.

Naturalmente, se ti trovi in un birrificio artigianale o in un locale specializzato, potrebbe valere la pena sperimentare. Se sei abituato alla Bud e vuoi scoprire nuovi sapori, ci sono alternative leggere ma più ricche di carattere:

  • Blonde Ale: morbida e accessibile, con note maltate e poco amaro.

  • Brown Ale: leggera tostatura, sapore rotondo, facilità di bevuta.

  • Pilsner artigianale: più fresca e aromatica rispetto alle lager industriali, senza allontanarsi troppo dallo stile che già conosci.

Molti preferiscono scegliere birre prodotte da birrifici indipendenti, per una questione di filosofia: filiera corta, ingredienti di qualità, sostegno all’economia del territorio. Questo è un buon motivo per esplorare alternative alla Budweiser quando se ne ha l’occasione.

Tuttavia, anche in questo caso, non c’è ragione di demonizzare la scelta di bere Bud se capita. Accettare una birra offerta in amicizia vale più di una presa di posizione ideologica.

Per celebrare lo spirito della Bud, ecco un piatto semplice che ne esalta la convivialità: il burger alla griglia marinato con Budweiser.

Ingredienti per 4 persone

  • 500 g di carne macinata (manzo o mista)

  • 1 lattina di Budweiser

  • 1 cucchiaio di salsa Worcestershire

  • 1 spicchio d’aglio tritato

  • 1 cucchiaino di senape dolce

  • Sale e pepe q.b.

  • 4 panini per burger

  • Formaggio cheddar a fette

  • Lattuga, pomodoro, cipolla rossa

Preparazione

  1. In una ciotola capiente, mescola la carne con la salsa Worcestershire, l’aglio, la senape e metà della Budweiser. Copri e lascia marinare in frigo per almeno un’ora.

  2. Forma 4 hamburger e cuoci sulla griglia ben calda, spennellandoli ogni tanto con la birra rimasta.

  3. Aggiungi una fetta di cheddar a fine cottura per farla sciogliere.

  4. Servi i burger nei panini con lattuga, pomodoro e cipolla a piacere.

Naturalmente, il miglior abbinamento per questi burger è... una Budweiser ben fredda. Il gusto leggero e pulito della birra bilancia la succulenza della carne e la sapidità del formaggio senza sovrastare i sapori.

Se vuoi variare, puoi accompagnare con una Helles bavarese o una American Pale Ale dal profilo delicato.

Alla fine, la questione è semplice: se ti piace la Budweiser, bevila con piacere e senza imbarazzo. Non tutte le birre devono essere un’esperienza sensoriale da meditazione. In certe occasioni, quello che conta è la convivialità, il momento condiviso con gli amici e il gusto personale.

Come si dice spesso: non esistono birre cattive, solo birre adatte a diversi momenti. E se quel momento chiama Budweiser, non c’è motivo di dire di no.


domenica 14 aprile 2024

La birra alla spina nel Regno Unito: cultura, temperatura e tipologie

 

La birra è più che una bevanda nel Regno Unito: è un rituale sociale, un pilastro culturale, un'eredità liquida che scorre nelle vene dei pub da secoli. E sì, nel Regno Unito la birra alla spina è non solo popolare, ma praticamente lo standard in ogni pub che si rispetti. Ma se siete abituati alla birra ghiacciata degli Stati Uniti, qui troverete un mondo diverso: più sfumato, più caldo (letteralmente), e ricco di tradizione.

Nei pub britannici, la birra alla spina è la norma, più ancora che in molti altri paesi. Le birre in bottiglia sono disponibili, certo, ma sono spesso viste come opzioni secondarie rispetto a ciò che scorre dalle pompe del bancone. Le vere protagoniste sono le "cask ales" (birre in fusto tradizionale, non pastorizzate né pressurizzate) e le "draught lagers", birre industriali spillate da impianti refrigerati e pressurizzati.

Un’icona della birra britannica è il “beer engine”, la pompa manuale che i baristi azionano a forza di braccio per servire birre da fusti di cask ale conservati in cantina. Queste birre non sono raffreddate artificialmente, ma mantengono una temperatura di cantina naturale: tra i 10 e i 12 gradi. Per chi è abituato a birre fredde come il ghiaccio, può sembrare strano, ma è una scelta precisa: questa temperatura esalta gli aromi, la rotondità del malto e la delicatezza del luppolo, senza anestetizzare il palato.

Le cask ale sono vivi, nel senso che continuano a fermentare nel fusto e devono essere consumati entro pochi giorni dall'apertura. Per questo motivo, richiedono attenzione e competenza nella gestione. Un buon publican è anche un curatore di birra.

Accanto ai beer engines, molti pub britannici hanno pompe elettriche che servono birre refrigerate e pressurizzate, simili a quelle che si trovano in Europa e America. Qui troverete marche come Carling, Foster’s, Stella Artois, Heineken, Amstel e versioni fredde delle birre britanniche più famose (come John Smith’s o Guinness Extra Cold).

La differenza è chiara: mentre negli USA la birra industriale è spesso ultra-fredda per mascherare la mancanza di sapore, in UK la birra è servita fresca, ma non ghiacciata, e la temperatura è calibrata per valorizzare, non coprire, il profilo organolettico.

La varietà è ampia, ma alcune categorie dominano il panorama:

  • Bitter e Best Bitter – Birre ambrate, dal corpo medio, con un bilanciamento tra malto e luppolo. La tipica “pinta del pub”.

  • Mild Ale – Più leggere, spesso scure, dal sapore maltato e con bassa gradazione.

  • Golden Ale – Versioni più leggere e fruttate, introdotte per competere con le lager.

  • Pale Ale e IPA (stile britannico) – Più delicate delle controparti americane, con luppoli terrosi e floreali.

  • Porter e Stout – Birre scure, corpose, con note di caffè, cioccolato e tostato.

  • Draught Lager – L’alternativa fredda, chiara, leggera, sempre presente per accontentare il pubblico generalista.

E non dimentichiamo il sidro, spesso servito alla spina, sia refrigerato che a temperatura ambiente, in particolare nel Sud-Ovest dell’Inghilterra (Somerset, Herefordshire).

In alcuni pub tradizionali — soprattutto nelle campagne o nei “micropub” — si trovano fusti a caduta: barili non pressurizzati, spesso posizionati dietro il bancone, da cui la birra viene spillata per gravità, senza pompa. Qui la temperatura può avvicinarsi a quella ambiente, soprattutto se non c’è cantina climatizzata. È birra nella sua forma più rustica e naturale, e richiede palati disposti ad abbandonare il concetto di "fredda = migliore".

Nel Regno Unito, la birra alla spina è più di un prodotto: è un patrimonio culturale. Che venga servita da una pompa manuale in un pub del Kent o da un rubinetto refrigerato a Manchester, non è solo questione di freddo o di marca, ma di stile e approccio al bere.

Per il bevitore britannico, una birra ben servita è una birra viva, che sa di malto, di tempo, di pompa tirata a mano e di legno di pub. E se non è ghiacciata come in America, è solo perché non ha bisogno di nascondere nulla.

 
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