Nel XIX secolo, l’uomo non parlava di postumi né di hangover: parlava dei “diavoli blu”, degli “orrori”, o, più poeticamente, di una “malattia dell’anima che non voleva andarsene”. Non esisteva una parola medica per definire quella miseria mattutina che seguiva una notte di eccessi. Esisteva solo il rimorso, la nausea e il tremore. L’uomo beveva, e al mattino incontrava il suo diavolo: una lezione privata, non una diagnosi.
Nel secolo della morale vittoriana, la prevenzione era affare dei predicatori della temperanza. L’uomo comune, invece, non pensava a prevenire: beveva il suo whisky, poi pagava il prezzo. La medicina popolare considerava l’ubriachezza una debolezza spirituale, più che un problema fisico. Chi cercava una cura lo faceva in silenzio, dietro porte chiuse, con rimedi che oscillavano tra superstizione e disperata inventiva.
Il più noto era l’hair of the dog that bit you — “il
pelo del cane che ti ha morso”. Un bicchiere dello stesso alcol per
sedare i sintomi: la mano tremante si calma, il mal di testa arretra.
Era una cura punitiva, ma sembrava funzionare abbastanza da
perpetuare la leggenda.
Altri preferivano la prairie oyster,
l’“ostrica della prateria”: un uovo crudo con pepe, aceto e
salsa Worcestershire, da ingoiare in un solo colpo. Qualcuno giurava
che fermasse il vomito.
C’erano poi tonici e preparati brevettati, i cosiddetti patent medicines, pubblicizzati come “ricostituenti universali”: molti contenevano alcol in quantità industriali, altri cocaina o chinino. Venduti nei negozi come elisir per il “sistema nervoso stanco”, promettevano di rimettere in piedi il bevitore in poche ore. In realtà, lo riportavano solo al punto di partenza.
Tra i rimedi più “gentili” comparivano uova, latte caldo,
brodi di carne — il celebre beef tea — o bevande come il
milk punch, un grog di latte, zucchero e rum. Erano pensati
per “rimettere lo stomaco in sesto” e dare forza dopo la notte di
eccessi. Qualcuno ricorreva a ostriche fresche o zuppe salate,
convinto che il sale “restituisse i sali perduti”. Tutto
empirico, ma non del tutto privo di logica.
Verso la fine del
secolo, con la nascita della chimica farmaceutica, comparvero
prodotti più “scientifici” – almeno in apparenza. Elisir con
caffeina e cocaina, come il primo Vin Mariani, promettevano
“vigore e sollievo dai postumi del vino”. Era l’inizio del
marketing farmaceutico moderno: curare un problema amplificandone le
cause.
Alla fine, però, la cura più comune restava la
sofferenza. In una stanza buia, l’uomo aspettava che il mondo
smettesse di girare, sudando il suo rimorso fino al tramonto. Nessun
medico, nessun rimedio, solo il silenzio e l’odore del whisky secco
sulle mani.
L’Ottocento non conosceva il concetto di “prevenzione”. Conosceva la conseguenza, la pena, e la lenta redenzione. La sbornia non era una malattia: era una piccola condanna, un patto infranto con se stessi e col giorno che veniva dopo.
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