Nel selvaggio e polveroso Ovest americano del XIX secolo, il
whisky era molto più di una semplice bevanda alcolica: era una
valuta, un sedativo, un anestetico e spesso un'arma chimica
mascherata da distillato. Ma se ci capitasse oggi tra le mani uno di
quei bicchieri, probabilmente lo annuseremmo con diffidenza, lo
rimetteremmo sul bancone... e chiameremmo i vigili del fuoco.
Nelle stazioni di scambio che punteggiavano il confine dell’espansione americana, i cacciatori di pellicce acquistavano whisky proveniente da città come St. Louis, pagandolo appena 20 centesimi al gallone. Ma prima di raggiungere i banconi del West, questo alcol veniva diluito con acqua di fiume — spesso stagnante, inquinata, contaminata — e rivenduto a 5 dollari a pinta. Un margine di profitto vertiginoso che rendeva ogni sorso un azzardo per la salute. In alcuni casi, la diluizione non era nemmeno la parte peggiore: c’era chi aromatizzava il miscuglio con tabacco masticato o erbe irritanti per simulare l’invecchiamento e rafforzare il “carattere” del prodotto.
Il bourbon, quando presente, non arrivava mai illeso. Durante il lungo viaggio verso le città minerarie o i saloon di confine, veniva ripetutamente tagliato, allungato e adulterato. Una volta a destinazione, era ben lontano da qualsiasi standard di qualità.
Tra le ricette leggendarie, spicca quella dell’“Ol’ Snakehead”, una miscela brutale che somiglia più a un esperimento da laboratorio che a un distillato. La formula, tramandata con un misto di ironia e terrore, prevedeva: un gallone di alcol puro, mezzo chilo di tabacco nero, melassa grezza, peperoni rossi spagnoli, acqua di fiume, due teste di serpente a sonagli per “dargli spirito” e — tocco finale — un ferro di cavallo immerso nel barile. Quando il ferro galleggiava, era pronto. Un sistema empirico che rendeva evidente quanto poco importasse il palato, e quanto invece contasse l’effetto inebriante. Forte come l'inferno, come direbbe oggi un bevitore coraggioso.
Se nei saloon più prestigiosi di città come Tombstone o Dodge City si poteva occasionalmente gustare whisky d'importazione decente, nella maggior parte dei casi le bevande di qualità erano riservate ai proprietari o a pochi clienti facoltosi. Il resto della clientela doveva accontentarsi del famigerato rotgut — letteralmente, “spaccabudella” — ottenuto da una fermentazione rozza di mais, grano avariato e melassa scadente, il tutto spinto a un contenuto alcolico altissimo per mascherare l’odore e il sapore putridi.
Ma il lato più oscuro del whisky western si rivela nell'interazione con le popolazioni native. I commercianti più spregiudicati vendevano agli indigeni una forma corrotta e tossica di alcol, spesso tagliata con sostanze pericolose come acido solforico, trementina, stricnina, cocculus indicus e tabacco. Si trattava di veri e propri veleni mascherati da distillati, distribuiti consapevolmente in cambio di pellicce, cavalli o risorse naturali. Le conseguenze furono devastanti: malattie, dipendenza, disgregazione sociale e, in numerosi casi, esplosioni di violenza che sfociarono in sanguinosi scontri.
Se il whisky era l’accendino che faceva esplodere le polveri, la birra costituiva la colonna sonora quotidiana della frontiera. Se ne bevevano litri, letteralmente. Più blanda, più sicura (relativamente), più familiare, la birra era il rifugio del lavoratore e del minatore. Ma anch’essa, spesso, era di bassa qualità, prodotta localmente senza alcun controllo igienico e soggetta a fermentazioni imprevedibili.
Quando un moderno appassionato si trova tra le mani una bottiglia ispirata al “whisky da saloon”, come quelle oggi vendute con etichette rievocative e formule audaci, è difficile non avvertire una vertigine temporale. Il sapore è forte, spesso affumicato, a volte infuso con note speziate e legnose. Per alcuni, è un sorso di storia. Per altri, un colpo basso allo stomaco. Ma oggi, almeno, è sicuro da bere.
In fondo, il whisky del vecchio West non era pensato per essere gustato. Era pensato per colpire. In ogni senso.
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