In un mondo in cui la percezione conta più della sostanza, anche un metallo nobile può diventare decorazione commestibile. È il caso del Goldschläger, il celebre liquore svizzero alla cannella, noto non tanto per il suo sapore speziato, quanto per la presenza — reale — di scaglie d’oro sospese al suo interno. Una trovata scenografica? Certamente. Ma anche il riflesso di un’antica e sottile alchimia del marketing: rendere l’ordinario straordinario, con l’illusione del lusso.
Sì, le scaglie d’oro che si vedono danzare nella bottiglia sono autentiche. Si tratta di foglie d’oro alimentare, tipicamente a 22 o 23 carati, dello stesso tipo utilizzato nella pasticceria di lusso o nei ristoranti stellati. L’oro, nella sua forma più pura, è un metallo chimicamente inerte: non si ossida, non si dissolve, non viene digerito. Per questo è considerato sicuro anche se ingerito, ed è classificato nell’Unione Europea come additivo alimentare E175.
Lo spessore delle scaglie è impercettibile — circa 100 nanometri — tanto che in una bottiglia standard da 750 ml la quantità totale d’oro si aggira sui 10 milligrammi. Valore attuale al grammo? Intorno ai 70 euro. Valore effettivo contenuto in bottiglia? Poco meno di un euro. A fronte di un prezzo commerciale che si attesta sui 25-30 euro, l’oro è più un elemento di marketing che un contenuto prezioso.
L’uso dell’oro come elemento edibile non è una bizzarria moderna. Già nel Rinascimento, nobili e aristocratici facevano uso di foglie d’oro per guarnire portate sontuose, credendo che il metallo potesse veicolare proprietà curative o esoteriche. A Danzica, nel XVI secolo, nacque la Goldwasser, un liquore aromatico contenente veri frammenti d’oro, destinato a lenire malanni e — soprattutto — a stupire gli ospiti.
In realtà, l’oro ingerito non ha alcun effetto fisiologico. Passa attraverso il corpo intatto, viene espulso senza essere assorbito, lasciando, come unico effetto collaterale, feci "luccicanti" e una conversazione da salotto.
L’appeal del Goldschläger risiede in un’idea tanto potente quanto effimera: la sensazione di bere il lusso. Un gesto di apparente opulenza che, in fondo, non costa nulla. Nessun arricchimento reale, nessun gusto che ne sia alterato. Solo un velo brillante che ammanta un prodotto altrimenti semplice, una bottiglia di liquore alla cannella il cui contenuto dorato è più coreografico che significativo.
Ma è proprio qui che si annida la forza dell’oro nel bicchiere: nella sua capacità di evocare ricchezza, esclusività, stravaganza. Chi lo beve non cerca nutrimento, ma un’esperienza. Un brindisi che non arricchisce, ma abbaglia. Un capriccio, forse, ma coerente con l’estetica del nostro tempo.
Bere una bottiglia di Goldschläger non trasforma nessuno in re Mida, né altera le papille gustative con l’alchimia del metallo. Ma nell’era dell’immagine e dell’ostentazione simbolica, anche 10 milligrammi di oro possono valere molto più del loro peso reale. Perché l’oro non sta nel liquore, ma negli occhi di chi guarda.
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