giovedì 11 aprile 2024

Birra del cuore: perché scegliamo le birre nazionali anche quando l’importazione è a portata di mano

 

In un’epoca in cui le birre artigianali invadono gli scaffali con profili aromatici complessi e le importazioni europee promettono autenticità secolare, viene spontaneo chiedersi: perché così tante persone continuano a scegliere birre nazionali? La risposta non sta nella reputazione o nell'esotismo, ma in qualcosa di molto più personale, quasi emotivo: il gusto, l’abitudine e il contesto.

Non è una questione di superiorità oggettiva. Non è una gara tra la freschezza delle pilsner tedesche, la struttura delle ale britanniche o il carattere delle stout irlandesi. Molte birre importate sono eccellenti — e riconosciute come tali. Ma la verità è che la birra è un’esperienza quotidiana, e nella quotidianità conta soprattutto quello che è conosciuto, immediato, accessibile.

Una lager locale fresca, dopo aver tagliato il prato, batte una trappista belga con dieci premi internazionali. Perché? Perché è leggera, dissetante, “giusta” per il momento. È la birra della pausa, del sudore, della routine domestica. È parte del paesaggio emotivo della giornata.

Molte birre importate — Guinness, ad esempio — sono iconiche, complesse e soddisfacenti. Ma non sono universali. Dopo una giornata sotto il sole o un pomeriggio a fare giardinaggio, una stout scura e corposa può sembrare un pasto liquido, non una ricompensa.

Allo stesso modo, la birra che accompagna un evento sociale ha bisogno di una specifica leggerezza emotiva. Una Iron City o una Lone Star non sono lì perché sono le migliori birre mai prodotte. Sono lì perché sono parte del rituale condiviso: la pizza, le alette di pollo, una partita di baseball in TV. È la birra che parla la lingua della tua squadra, della tua città, della tua infanzia.

Birre australiane, britanniche o belghe possono offrire esperienze organolettiche notevoli, ma la reperibilità resta un limite concreto. Non tutte le birre sono distribuite in modo capillare e, anche quando lo sono, i gusti possono risultare meno familiari. Le ale inglesi, ad esempio, spesso hanno una temperatura di servizio più alta e una carbonazione più bassa: possono apparire “piatte” a chi è abituato a lager frizzanti. La rigidità stilistica delle birre tedesche, invece, può risultare monotona per alcuni bevitori.

Ci sono casi in cui la scelta della birra diventa parte del pasto culturale. Nessuna cena messicana sembra completa senza una Tecate, una Negra Modelo o una Bohemia. Perché? Non è solo abitudine: quelle birre sono calibrate per quei sapori, per il calore del clima, per l’atmosfera del luogo. Sono parte della “geografia sensoriale” del pasto.

Allo stesso modo, bere una Anchor Steam a San Francisco, mentre si mangia pane caldo della Boudin Bakery, non è solo consumo: è memoria in atto. È evocazione, rituale, legame.

Alla fine, la birra nazionale piace perché sa di casa, di contesto, di momenti condivisi. È parte del paesaggio emotivo e fisico di chi la beve. Anche chi ha gusti raffinati può trovare più soddisfazione in una birra semplice, ma profondamente legata al proprio vissuto.

La birra, dopotutto, non è un concorso di aromi. È compagnia. È storia personale. È piacere immediato.

Le birre importate possono essere superbe. Le artigianali possono essere straordinarie. Ma spesso scegliamo le birre nazionali non per ignoranza o provincialismo, ma perché sono quelle che ci parlano con familiarità, che si adattano al nostro stile di vita e che completano momenti precisi della nostra giornata.

In fin dei conti, la birra migliore non è quella che ha più luppolo o la reputazione più blasonata. È quella che si beve con soddisfazione, nel posto giusto, con la gente giusta — e, magari, dopo aver tagliato l’erba.



mercoledì 10 aprile 2024

La bandiera irlandese: il cocktail che rompe i nervi (e il cuore) dei baristi

Nel mondo dei cocktail esistono due categorie ben distinte: quelli che si preparano in trenta secondi tra una chiacchiera e l’altra, e quelli che, per essere serviti come si deve, richiedono la mano di un chirurgo, la pazienza di un monaco tibetano e il sangue freddo di un artificiere. La bandiera irlandese (o Irish Flag) appartiene senza dubbio alla seconda categoria — ed è, per molti baristi, l’incubo travestito da effetto speciale.

A prima vista, è tutto molto semplice: tre liquori, tre colori, tre strati ben distinti. Il risultato finale — un bicchierino che riproduce i colori della bandiera tricolore d’Irlanda (verde, bianco e arancio) — è scenografico e fotogenico, tanto da finire regolarmente nei caroselli Instagram di clienti ignari del dramma appena consumatosi dietro il bancone.

La composizione classica prevede:

  • Crème de menthe (verde brillante) sul fondo,

  • Baileys Irish Cream (color crema) al centro,

  • Grand Marnier (o Southern Comfort, per l’arancione) in cima.

Sembra facile finché non si tenta di far galleggiare due liquori densi e zuccherini uno sopra l’altro senza farli mescolare. La densità, la temperatura e la pazienza diventano qui elementi critici quanto gli ingredienti stessi. Versare Baileys troppo in fretta, e la menta esplode in vortici verdastri. Un colpo di cucchiaio fuori asse, e l’arancione precipita nel baratro.

Per stratificare con successo, si usa spesso il dorso di un cucchiaio posizionato sopra il primo strato, versando il secondo liquore lentamente sulla superficie convessa. Alcuni baristi esperti preferiscono inclinare leggermente il bicchiere e versare lungo la parete interna, sfruttando la tensione superficiale. Ma in un locale affollato, con sei clienti che sbattono i bicchieri sul bancone e lo spillatore che perde, ricreare il tricolore con precisione millimetrica può diventare un supplizio greco.

E c’è un’aggravante emotiva: il cocktail viene ingoiato in meno di un secondo. Dopo tutto quel lavoro di stratificazione e attenzione maniacale, vederlo sparire in un unico shot, spesso accompagnato da una battuta da addio al celibato, lascia un retrogusto più amaro di un Fernet Branca a stomaco vuoto.

Il successo di drink come l’Irish Flag o il B-52 (sua variante più celebre, con Kahlua, Baileys e Grand Marnier) si basa sull’impatto visivo, non sul gusto. Nessuno li ordina per il bilanciamento tra zucchero e alcol. Sono cocktail da esibizione, da colpo di scena, da "guardami mentre lo bevo".

Per i baristi, però, rappresentano un’ingiustizia operativa: alta difficoltà, zero riconoscenza. Quando la fila al bancone si allunga e la musica sale, un Irish Flag ordinato al momento sbagliato può trasformare un professionista della mixology in un aspirante monaco trappista.

Il Flag, in fondo, è un paradosso liquido. Rende felice chi lo guarda, esaspera chi lo prepara, e non lascia quasi nulla in bocca. È il cocktail che incarna la vanità del tempo speso bene per gli altri, male per sé. È una coreografia, non una sinfonia.

Quindi la prossima volta che ne ordinate uno — magari per San Patrizio, magari per stupire il vostro gruppo di amici — ricordatevi del barista. E lasciategli almeno una mancia che valga il numero di strati.



martedì 9 aprile 2024

Contenitore e piacere: perché il modo in cui beviamo la birra fa davvero la differenza

 

Sembra una domanda semplice, quasi banale: il tipo di contenitore influisce sul piacere di bere birra? Ma chi ama davvero questa bevanda sa che ogni dettaglio conta. E sì, la risposta è inequivocabile: il contenitore ha un impatto profondo sull’esperienza complessiva del bere birra, toccando non solo aspetti sensoriali ma anche psicologici e culturali.

Bere birra non è solo una questione di gusto. È un atto complesso che coinvolge l’olfatto, la vista, il tatto e perfino l’udito (il suono della schiuma versata, la frizzantezza del primo sorso). E il contenitore gioca un ruolo chiave nel modulare ciascuno di questi sensi.

Partiamo dal bicchiere, il contenitore per eccellenza. Il vetro trasparente permette di ammirare il colore e la limpidezza della birra, di osservare la consistenza della schiuma, e di annusarne gli aromi. Un bicchiere a tulipano, ad esempio, convoglia gli aromi verso il naso e aiuta a mantenere la testa di schiuma, proteggendo i profumi e mantenendo la carbonazione. È il miglior alleato di una birra aromatica e strutturata, come una IPA o una saison belga.

Non è solo questione di tecnica. Il contenitore influenza le aspettative, e quindi il giudizio finale. Una stout densa, nera come la pece, servita in un bicchiere opaco o in una bottiglia di plastica perde parte del suo fascino primordiale. Un boccale robusto, invece, suggerisce forza, carattere e convivialità.

Allo stesso modo, la lattina, che oggi vive una rinascita grazie alla birra artigianale, comunica immediatezza, freschezza e informalità. Ma berla direttamente dalla lattina? Qui le cose cambiano. Il metallo può schermare l’aroma, mentre la forma impedisce il contatto pieno con i sensi. Un sorso da lattina può essere rinfrescante, certo, ma non restituisce le sfumature che un bicchiere adeguato può offrire.

Uno degli elementi più trascurati ma fondamentali della birra è la schiuma, che non è un difetto né un ostacolo, bensì parte integrante dell’esperienza. Serve a proteggere la birra dall’ossidazione, trattiene aromi e influisce sulla texture del sorso. La forma del contenitore può favorirne o penalizzarne la formazione.

Una pinta inglese favorisce l’evaporazione degli aromi di malto; un bicchiere weizen lungo e stretto esalta i profumi di banana e chiodi di garofano tipici delle birre di frumento tedesche. Una coppa belga, larga e bombata, è pensata per concentrare il bouquet aromatico e lasciar spazio a schiume abbondanti.

Non va dimenticato l’effetto termico: le lattine si raffreddano più velocemente ma si riscaldano altrettanto in fretta nella mano. Le bottiglie scure proteggono meglio dalla luce, ma non isolano. I bicchieri, se pre-raffreddati o adatti al tipo di birra, possono aiutare a mantenerne la temperatura più a lungo. E il materiale conta: il vetro è neutro, il metallo può alterare leggermente il gusto, la plastica lo peggiora.

Il contenitore non è un dettaglio marginale: è il ponte tra la birra e il bevitore. Può esaltare o penalizzare gli aromi, cambiare la percezione gustativa, rafforzare (o rovinare) l’aspetto estetico, e persino modificare il nostro giudizio complessivo.

Se vuoi davvero goderti una buona birra, versala nel bicchiere giusto. Scegli il contenitore che esalti il suo stile, la sua personalità, la sua storia. Perché nella cultura della birra, come nella vita, non conta solo cosa bevi — ma anche come lo bevi.




lunedì 8 aprile 2024

Squaraus Night Fever a Reggio Emilia: Serata in Discoteca Finisce con 25 Ricoveri per Ghiaccio Contaminato

 

Quella che doveva essere una divertente serata in discoteca si è trasformata in un vero e proprio incubo per decine di giovani in provincia di Reggio Emilia. Un evento che qualcuno ha già ribattezzato "Pranzo di Gubbio" per le sue spiacevoli conseguenze, con 25 persone finite all’ospedale a causa di gravi disturbi gastrointestinali.

La causa del malore generalizzato è stata identificata rapidamente: il ghiaccio contaminato presente nei drink serviti nel locale. Una situazione che ha scatenato una vera e propria "Squaraus Night Fever" (un'espressione gergale che indica una forte diarrea).

Il locale, di fronte all'emergenza sanitaria, è subito corso ai ripari, cambiando prontamente il fornitore del ghiaccio.

Le cause di questo episodio sono evidentemente legate a una contaminazione batterica o virale del ghiaccio, probabilmente dovuta a processi di produzione, conservazione o manipolazione non conformi alle norme igienico-sanitarie. La rapida diffusione dei sintomi tra i clienti che hanno consumato le bevande contaminate indica una fonte comune e altamente infettiva.

Le implicazioni legali potrebbero essere significative. Le autorità sanitarie e giudiziarie avvieranno sicuramente un'indagine approfondita per accertare le responsabilità del fornitore del ghiaccio e del locale stesso. Potrebbero configurarsi reati legati alla salute pubblica, e le vittime potrebbero avviare azioni legali per chiedere risarcimenti per i danni subiti.

Sul piano sociale, l'episodio genera preoccupazione e sfiducia nei confronti dei locali pubblici e della sicurezza alimentare. La notizia si diffonde rapidamente, soprattutto tra i giovani frequentatori di discoteche, e potrebbe portare a una maggiore attenzione verso le condizioni igieniche dei luoghi di svago. Per i 25 ricoverati e le loro famiglie, l'esperienza è stata traumatica e ha richiesto cure mediche urgenti.

Economicamente, il locale, pur avendo agito prontamente, potrebbe subire un grave danno d'immagine e una diminuzione della clientela, almeno nel breve termine. Anche il fornitore del ghiaccio, se ritenuto responsabile, affronterà serie ripercussioni economiche e legali. Questo tipo di incidenti evidenzia l'importanza dei controlli di qualità e della gestione della filiera per le attività che operano nel settore alimentare e delle bevande.

L'episodio di Reggio Emilia è un chiaro monito sull'importanza della sicurezza igienico-sanitaria in ogni fase della filiera alimentare, anche per prodotti apparentemente innocui come il ghiaccio, per evitare che una serata di divertimento si trasformi in un'emergenza sanitaria.

domenica 7 aprile 2024

Il Moonshine: storia, metodi e pericoli del distillato clandestino americano

Per alcuni è folklore, per altri reato federale. Il moonshine, ovvero il liquore distillato illegalmente, ha attraversato i secoli nella cultura americana come simbolo tanto di libertà individuale quanto di pericolo. Spesso associato ai monti Appalachi, ai barattoli di vetro senza etichetta e alle corse sfrenate su strade sterrate (quelle che, in parte, hanno dato vita alla NASCAR), il moonshine non è una ricetta quanto una pratica, un rituale artigianale che ha resistito a proibizionismo, regolamentazioni e mode.

Ma che cos’è davvero il moonshine? E come veniva — e viene ancora — prodotto?

Tutti gli alcolici iniziano allo stesso modo: con la fermentazione. Prendete una fonte di zuccheri (mais, frutta, patate, zucchero di canna), aggiungete lievito e lasciate il composto in un ambiente povero di ossigeno. Il lievito, consumando gli zuccheri, produce etanolo e anidride carbonica. A seconda della materia prima si ottiene birra (cereali e luppolo), vino (uva), o sidro (mele).

Il moonshine, tuttavia, fa un passo in più: la distillazione. Questo processo separa l’alcol dall’acqua sfruttando il diverso punto di ebollizione tra etanolo (78,3 °C) e acqua (100 °C). Il liquido fermentato viene riscaldato in un alambicco, e i vapori raccolti e condensati in una nuova camera. Il risultato è un distillato con una concentrazione alcolica molto più alta — ed è qui che le cose diventano rischiose.

Chi distilla conosce bene la regola delle “tre fasi”: testa, cuore e coda.

  • La testa, che esce per prima dall’alambicco, contiene metanolo e altri composti volatili potenzialmente letali. Va sempre scartata.

  • Il cuore è la parte buona, quella che contiene la maggior parte dell’etanolo e che viene imbottigliata.

  • La coda arriva alla fine e contiene impurità che possono alterare il sapore — spesso viene scartata o ridistillata.

La mancanza di un controllo rigoroso su questi passaggi è ciò che ha reso (e rende ancora) il moonshine pericoloso. Bastano pochi millilitri di metanolo per causare cecità permanente o morte.

Un metodo alternativo, noto come distillazione a freddo o freezing distillation, prevede di congelare la miscela fermentata e rimuovere fisicamente il ghiaccio. È una tecnica antica, utilizzata in passato per produrre applejack, una sorta di brandy di mele. Questo metodo è meno efficiente, ma evita il rischio del metanolo — anche se porta con sé altre impurità concentrate.

In realtà, non esiste una ricetta unica per il moonshine. Il termine è generico, e comprende una vasta gamma di distillati: mais, segale, zucchero, frutta, patate. Il "classico" moonshine degli Appalachi era a base di mais fermentato e veniva distillato in piccoli alambicchi artigianali costruiti con materiali facilmente reperibili: barili, tubi di rame, serpentine raffreddate in secchi d’acqua. Ogni famiglia aveva la propria “ricetta”, tramandata oralmente e modificata nel tempo. In effetti, il moonshine era meno una bevanda e più una tradizione.

Oggi, negli Stati Uniti, produrre alcolici fermentati per uso personale è legale in tutti i 50 stati. Ma la distillazione, anche se non destinata alla vendita, resta vietata quasi ovunque. Solo Alaska, Arizona, Massachusetts e Missouri permettono la distillazione domestica — e con forti limitazioni.

Il motivo è chiaro: sicurezza pubblica e tasse. L’alcool distillato è più pericoloso da produrre e più redditizio per il fisco. Una distilleria legale deve sottostare a norme rigide, ottenere licenze, registrare ogni litro prodotto, e naturalmente pagare accise. Il moonshiner, al contrario, lavora nell’ombra — spesso letteralmente, da cui il nome “moonshine”.

Sebbene oggi il moonshine venga venduto legalmente in versioni commerciali “ispirate” all’originale, come liquori a base di mais o aromatizzati alla frutta, il fascino del vero moonshine sopravvive. È il richiamo di un’America rurale, ribelle, autonoma. È la voce di chi preferisce la libertà al permesso, la tradizione alla burocrazia. È la storia di zio Jesse nei Dukes of Hazzard, o delle corse notturne nei boschi della Carolina del Nord.

Il moonshine è più di una bevanda. È un frammento distillato di identità americana: torbido, potente e intramontabile.





sabato 6 aprile 2024

Americano: L’Eleganza Discreta dell’Aperitivo Italiano

Tra le ombre dei caffè liberty e le terrazze assolate del Nord Italia, c’è un cocktail che incarna lo spirito raffinato ma accessibile dell’aperitivo all’italiana: l’Americano. Nato ben prima delle mode globali e del culto contemporaneo del mixology, questo drink è la quintessenza della semplicità sofisticata. Una bevanda che non ha bisogno di stupire per affascinare, ma che ha saputo attraversare epoche, conquistare palati illustri e sedersi, silenziosa e impeccabile, accanto alle leggende del bar.

L’Americano nasce ufficialmente nel 1860 a Milano, nel cuore del locale di Gaspare Campari, dove veniva servito con il nome di “Milano-Torino” – un riferimento alle due città di origine dei suoi ingredienti principali: il bitter Campari (Milano) e il vermouth dolce (Torino). Il nome attuale comparve solo negli anni ’30, quando divenne molto popolare tra i turisti statunitensi in Italia, al punto da meritarsi il titolo di Americano, ironico omaggio a chi lo beveva con tanto entusiasmo.

Ma la consacrazione definitiva avviene con un altro americano – fittizio – che lo rende immortale: James Bond. Nel romanzo Casino Royale di Ian Fleming, è proprio questo il primo cocktail ordinato dall’agente 007, ben prima del celebre Martini “agitato, non mescolato”.

L’Americano è composto da tre ingredienti fondamentali, in parti uguali:

  • 30 ml di bitter Campari

  • 30 ml di vermouth rosso dolce

  • Top di soda (acqua gassata)

Il cocktail viene costruito direttamente nel bicchiere old fashioned, colmo di ghiaccio, e guarnito con una fetta d’arancia o, meno frequentemente, una scorza di limone.

Il risultato è un equilibrio magistrale tra l’amaro erbaceo del Campari, la dolcezza avvolgente del vermouth e la freschezza effervescente della soda. Un aperitivo leggero, aromatico, che stimola l’appetito e invita alla conversazione.

Molto prima che il Negroni diventasse il re degli happy hour internazionali, l’Americano era già il punto di riferimento per chi cercava un cocktail più strutturato dello Spritz ma meno alcolico di un Martini. Ed è proprio dall’Americano che nasce, per variazione, il Negroni: secondo la leggenda, fu il conte Camillo Negroni, nel 1919 a Firenze, a chiedere al barman Fosco Scarselli di sostituire la soda con gin. Il resto è storia.

Al contrario del suo fratello più forte, l’Americano mantiene un tono educato, civile, quasi letterario. È la scelta di chi sa misurare il gusto e il tempo. Di chi preferisce la finezza alla potenza.

L’Americano va servito freddo ma non gelido, in un bicchiere basso e largo, con ghiaccio cristallino e una fetta d’arancia ben tagliata. La soda deve essere aggiunta all’ultimo, con delicatezza, per mantenere l’effervescenza.

È il cocktail perfetto da godere all’ora del tramonto, su una terrazza urbana o in una piazza italiana, in accompagnamento a:

  • Olive verdi e mandorle tostate

  • Salumi leggeri, come prosciutto crudo dolce o bresaola

  • Formaggi freschi, tipo caprino o robiola

  • Tapenade di olive nere e pane croccante

  • Crostini con alici o mousse di tonno

La sua leggerezza alcolica (intorno al 15% vol) lo rende adatto anche a più di un bicchiere, senza appesantire. È un invito alla convivialità lenta, alla socialità misurata, alla conversazione intelligente.

L’Americano non è solo un cocktail: è un manifesto culturale. Parla di gusto sobrio, di eleganza innata, di tempi in cui la qualità era più importante della quantità. È la scelta di chi ama l’Italia senza esibirla, di chi cerca l’equilibrio tra dolce e amaro anche nella vita.

In un mondo di superalcolici urlati e cocktail da fotografia, l’Americano resta lì, fedele a se stesso. Come un uomo in giacca di lino che, tra il rumore del mondo, sceglie di sussurrare.



venerdì 5 aprile 2024

Bundaberg Rum: Il Cuore Forte del Queensland

Nel cuore tropicale dell’Australia, tra i campi di canna da zucchero battuti dal sole del Queensland e l’aria salmastra del Pacifico, nasce uno spirito che è diventato leggenda nazionale: il Bundaberg Rum. Conosciuto colloquialmente come Bundy, questo rum rappresenta molto più di una bevanda alcolica: è un simbolo identitario, amato, odiato, celebrato e temuto, capace di evocare l’anima ribelle e fiera dell’outback australiano.

La storia di Bundaberg Rum comincia nel 1888, in risposta a un problema di sovrapproduzione. I coltivatori locali di canna da zucchero si trovavano a gestire un eccesso di melassa, sottoprodotto della raffinazione dello zucchero che rischiava di diventare un rifiuto industriale. L’intuizione fu semplice e geniale: distillarla in rum. Così nacque la Bundaberg Distilling Company, fondata da un consorzio di imprenditori locali. La produzione iniziò l’anno successivo.

Da allora, il rum di Bundaberg ha accompagnato la crescita del Paese, dalle guerre mondiali alle Olimpiadi, diventando un emblema dell’identità operaia e combattiva del nord australiano. Una bottiglia di Bundy, per molti, non è un semplice distillato, ma una dichiarazione di appartenenza.

Il Bundaberg Rum si distingue per il suo stile deciso, speziato e muscolare. A differenza dei rum caraibici più dolci e vellutati, il Bundy ha un profilo gustativo netto, con note di liquirizia, vaniglia, pepe nero, legno bruciato e un fondo caldo di melassa. È un rum che non chiede il permesso: entra in bocca con vigore e lascia il segno.

L’etichetta più famosa è il Bundaberg Original, ma la distilleria ha nel tempo ampliato la gamma con proposte più raffinate: il Bundaberg Red, filtrato attraverso carbone per una maggiore morbidezza; il Reserve, più invecchiato e rotondo; e le edizioni limitate, come il Master Distillers’ Collection, apprezzate dai collezionisti e dagli intenditori.

Il simbolo dell’orso polare sull’etichetta – scelto nel 1961 per comunicare forza e resistenza – è diventato un’icona pop australiana, raffigurato su t-shirt, cappellini, e poster da pub.

La distilleria ha conosciuto due incendi devastanti: nel 1907 e nel 1936, entrambi causati da esplosioni di etanolo, che rasero al suolo l’intero stabilimento. Ma come spesso accade nei racconti epici, Bundaberg risorse ogni volta dalle sue ceneri, più forte di prima.

Nel 2013, un’alluvione catastrofica colpì la città di Bundaberg, costringendo la distilleria a fermare la produzione. Anche in quel caso, i maestri distillatori e la comunità locale si rimboccarono le maniche, ricostruendo con determinazione il sito storico.

Oggi, la Bundaberg Distillery è visitabile e rappresenta una delle principali attrazioni turistiche del Queensland, insignita del titolo di iconic Australian brand.

Il Bundaberg Original si presta perfettamente alla miscelazione, spesso servito con cola e una fetta di lime: il celebre “Bundy and Coke” è un’istituzione nei bar australiani. Ma le versioni riserva meritano di essere gustate pure, a temperatura ambiente o con un cubetto di ghiaccio, per coglierne le sfumature aromatiche.

In cucina, il Bundaberg può accompagnare piatti robusti: barbecue australiano, carni affumicate, hamburger speziati o ribs al miele. In abbinamento dolce, è ideale con dessert al cioccolato fondente, torta di noci pecan o banoffee pie.

Più che un rum, Bundaberg è uno spirito che racconta l'Australia profonda, quella fatta di braccia forti, storie da pub e tramonti rossi sull’entroterra. Ha un’anima ruvida e autentica, come la terra da cui proviene. Nel sorseggiarlo, si percepisce l’eco delle raffinerie di zucchero, il rombo dei fiumi in piena, il calore secco del bush.

Bundaberg Rum è questo: non una moda, ma una presenza costante. Una voce aspra e sincera nel coro globale dei distillati.





 
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