Il barback non è una novità del XXI secolo. La sua origine risale all’epoca d’oro dei saloon americani, nel XIX secolo, quando i bar erano crocevia di avventurieri, cowboy e cercatori d’oro. In quel caos di bicchieri sporchi, bottiglie vuote e ordini urlati, i barman avevano bisogno di un aiutante che tenesse il passo: nasceva così il “bar boy” o “bar porter”, antenato del moderno barback. Negli Stati Uniti degli anni ’20, con il Proibizionismo che trasformava i locali in speakeasy clandestini, il ritmo frenetico richiedeva qualcuno che rifornisse whisky di contrabbando e ghiaccio sottobanco: il barback diventava un complice essenziale. Un dato curioso? Durante la Grande Depressione, molti barback erano immigrati italiani o irlandesi, pronti a fare i lavori più duri per entrare nel sogno americano – un’eco che risuona ancora oggi nei bar di Roma o Milano.
Cosa fa un barback? Immaginiamolo come il motore nascosto di una macchina ben oliata. Rifornisce il ghiaccio – fino a 50 chili a sera in un locale affollato, secondo stime di Restworld – pulisce bicchieri, taglia lime, organizza bottiglie e corre a cambiare un fusto di birra quando il barman è sommerso dagli ordini. In Italia, dove il settore Horeca vale 87 miliardi di euro (dati Fipe 2024), il barback guadagna in media tra i 20.000 e i 30.000 euro l’anno, ma nei club di lusso o nelle discoteche le mance possono far lievitare il reddito. Non è raro che un barback ambizioso, dopo un paio d’anni, diventi barman: il 60% dei bartender italiani ha iniziato così, rivela un sondaggio di Accademia Barman del 2023.
Le curiosità sul barback abbondano. A New York, negli anni ’50, si diceva che i barback dei jazz club di Harlem fossero maestri di improvvisazione, capaci di inventare guarnizioni con quel poco che avevano a disposizione durante le jam session infinite. In Europa, invece, il ruolo ha una sfumatura più artigianale: a Londra, durante il revival dei cocktail negli anni 2000, il barback era spesso un apprendista mixologist, pagato per imparare i segreti del mestiere. E c’è chi giura che il termine “runner” – un sinonimo usato in Italia – derivi dai barback dei pub inglesi, costretti a correre tra le cantine umide e i banconi pieni di pinte. Nessuna prova storica lo conferma, ma l’immagine è troppo vivida per non crederci.
Il barback resta un simbolo di resilienza e umiltà. Non ha il glamour del barman che shaker in mano incanta i clienti, ma senza di lui il bar crolla. In un locale di Trastevere, un veterano del mestiere racconta: “Una sera del 2019, durante un concerto sold-out, ho trasportato 80 chili di ghiaccio da solo in mezz’ora. Il barman mi ha offerto un drink, ma ero troppo stanco per berlo.” È questa la storia del barback: un lavoro di fatica, intuito e dedizione, lontano dai riflettori ma vicino al cuore pulsante di ogni serata.
E una curiosità finale: negli anni ’70, a Las Vegas, i barback dei casinò di lusso erano pagati per spiare i clienti e riferire ai gestori chi barava al gioco – un compito da 007 che oggi farebbe sorridere. I barback, con le loro mani callose e il loro passo veloce, tengono in piedi un mondo che senza di loro si spegnerebbe. Meritano un titolo, sì: gli eroi invisibili della notte.