giovedì 19 settembre 2024

Perché agli alcolisti piace ubriacarsi: l’illusione della quiete


Nel silenzio di un bicchiere colmo, molti trovano ciò che la realtà nega: un attimo di tregua. L’alcol, più di qualsiasi altra sostanza, esercita un potere antico e devastante sull’animo umano. Non si tratta soltanto di dipendenza chimica o abitudine sociale. È un rituale di fuga. Una sospensione momentanea del dolore, un rifugio contro la marea incessante dei pensieri.

Dietro ogni ubriacatura c’è un desiderio: che tutto si fermi.
L’alcolico non cerca il gusto, né l’euforia; cerca il vuoto. Il momento in cui le preoccupazioni, i rimorsi, la paura e la vergogna vengono anestetizzati da una vertigine dolce e temporanea. È in quell’attimo che il mondo smette di girare, e la mente, finalmente, tace.

Gli psicologi lo definiscono coping maladattivo: un modo disfunzionale di affrontare la sofferenza. Ma chi vive la dipendenza non pensa in termini clinici. Pensa in termini di sollievo. Beve per silenziare la voce interiore che lo tormenta, per allontanare un dolore che la sobrietà amplifica. E se il prezzo di quel silenzio è la salute, la vergogna o perfino la vita, resta comunque un prezzo accettabile — almeno per qualche ora.

L’alcol promette libertà, ma impone schiavitù.
All’inizio c’è una scelta consapevole: un bicchiere per rilassarsi, un altro per dimenticare. Poi arriva la necessità. L’organismo, alterato dall’assuefazione, reclama la sostanza come un diritto biologico. Ciò che inizia come evasione diventa prigionia. La mente, dipendente dal sollievo momentaneo, si convince che non esista altro modo per sopravvivere.

Eppure, l’effetto calmante dell’alcol è un inganno. Sopprime i sintomi dell’angoscia, ma non ne cura la causa. Quando l’ebbrezza svanisce, la realtà ritorna con una violenza maggiore, caricata del senso di colpa e dell’autodisprezzo. È un ciclo che si autoalimenta: bere per dimenticare, dimenticare di aver bevuto, bere ancora per dimenticare di nuovo.

La dinamica è la stessa che si osserva in altre dipendenze: pornografia, zucchero, gioco, sostanze stupefacenti. In tutti i casi, il cervello cerca una scarica di dopamina capace di sovrascrivere il dolore emotivo. È un cortocircuito della volontà: l’essere umano, pur sapendo che il rimedio lo distrugge, continua a cercarlo perché gli offre ciò che la vita non concede facilmente — una tregua.

Nessun alcolista si ubriaca per gioia. Si ubriaca per silenzio.
Finché sente l’alcol bruciare in gola, il mondo non esiste più: non c’è passato, non c’è futuro, non c’è colpa. Solo un presente immobile, sospeso tra il bicchiere e l’oblio. È una pace fragile, effimera, ma terribilmente reale.
E quando svanisce, lascia dietro di sé il vuoto che l’ha generata.

Per questo, forse, la vera domanda non è perché gli alcolisti amino ubriacarsi, ma da cosa stiano cercando di fuggire.


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