Era una di quelle notti in cui il silenzio si piega sotto il peso
dei bicchieri svuotati.
La città dormiva, ma nel pub all’angolo
le luci tremolavano ancora, e tra il fumo e le risate sorde, un uomo
si alzò traballando. Il suo nome non importava — al banco lo
chiamavano tutti Mac, anche se nessuno sapeva se fosse
davvero scozzese o solo un’anima sperduta in cerca di un motivo per
brindare.
Barcollò fino alla porta, reggendo qualcosa sotto il braccio. Non
era una bottiglia, né un vecchio giornale: era un’anatra, viva e
per nulla felice di trovarsi lì, piume arruffate e sguardo
perplesso.
«Vieni, tesoro», le mormorò con tono cospiratorio,
come un cavaliere che accompagna la dama a un ballo proibito. E così,
tra un passo e uno sbadiglio, attraversò la strada, salì le scale
scricchiolanti del suo appartamento e spinse la porta della camera da
letto.
La moglie lo guardò come solo una donna stanca può guardare un
uomo che ha oltrepassato il limite da troppo tempo. Aveva le occhiaie
più profonde delle sue tasche vuote e la pazienza ridotta a un
filo.
Lui, con il fiato che sapeva di whisky e rimorso, sollevò
l’anatra e proclamò con orgoglio ubriaco:
«Tesoro… questo è
il maiale che ho scopato!»
Un silenzio teso come una corda di violino riempì la stanza.
L’anatra gracchiò, la moglie sbatté le palpebre, poi scattò in
piedi:
«Ubriacone! Quello è un’anatra!»
Mac la guardò, poi guardò l’anatra. Un lungo momento di
confusione passò tra i tre — uomo, donna, volatile.
Infine
scrollò le spalle e, con un ghigno storto, rispose:
«Stavo
parlando con l’anatra.»
La moglie si voltò, lasciandolo lì con il suo animale e l’odore
acre del pub ancora addosso. Lui si accasciò sul letto, cullando
l’anatra come fosse una vecchia amica.
Fu l’ultima notte che
dormì in quella casa, ma nel quartiere, ancora oggi, qualcuno giura
di averlo rivisto — o almeno di aver sentito una risata ubriaca
echeggiare nel buio, seguita da un qua qua lontano.
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