martedì 30 aprile 2024

Perché alcune tequila provocano terribili postumi mentre altre no?


Quando si parla di postumi di sbornia, è facile attribuire la colpa solo all’etanolo, l’alcol contenuto in tutte le bevande alcoliche. È vero che un consumo eccessivo di qualsiasi bevanda alcolica porta a malesseri il giorno dopo, ma la domanda qui è più specifica: perché alcune tequila, anche in quantità moderate, lasciano postumi molto peggiori di altre?

Il punto cruciale è la qualità della distillazione. Durante il processo di distillazione dell’alcol, si separano diverse frazioni: la “testa”, la parte iniziale ricca di sostanze volatili, e la “coda”, quella finale con composti meno desiderabili. Entrambe contengono oli di fuselo, una famiglia di composti che conferiscono aroma ma, soprattutto, sono responsabili di molti degli effetti tossici che causano i famigerati postumi della sbornia.

Un distillatore esperto sa che è essenziale eliminare sia la testa che la coda per ottenere un prodotto pulito e digeribile. In distillerie di alto livello, questo avviene con grande cura, e spesso si impiegano tecniche aggiuntive come la filtrazione a carbone per rimuovere ulteriormente impurità e oli residui. Il risultato è una tequila più pura, con un gusto equilibrato e con minori probabilità di causare malesseri.

Al contrario, molte tequila economiche, spesso prodotte da piccole distillerie poco conosciute o con scarsi controlli qualitativi, non effettuano questa separazione in modo accurato. Il risultato è un liquido che contiene ancora una buona quantità di oli di fuselo e altre impurità, e quindi più soggetto a provocare postumi pesanti, anche se bevuto in modiche quantità.

Questa dinamica non riguarda solo la tequila: è comune a molte bevande alcoliche di bassa qualità. Pensiamo, per esempio, a vodka prodotte in modo artigianale e senza rigorosi controlli, che possono avere sapori e odori sgradevoli e lasciare postumi peggiori rispetto a marchi più famosi e regolamentati.

La tequila, in particolare, ha un sapore forte e fruttato che può facilmente mascherare questi difetti, a differenza di liquori come la vodka o il rum bianco, dove il sapore “sporco” è spesso più evidente. Come diceva il cantante Johnny Winter in una sua celebre strofa: “Profumo economico, profumo dolce... Vivi solo per oggi, annegare nella tequila economica e tirati fuori dallo sciacquone”. Un modo ironico per ricordare che non tutta la tequila è uguale.

Personalmente adoro la tequila e spesso passo serate bevendo solo quella, senza mai soffrire postumi. Questo perché scelgo prodotti di qualità, consapevole che risparmiare troppo sul prezzo può significare bere un liquido che mette a dura prova il corpo il giorno dopo.

Se volete godervi una tequila senza patire i postumi, affidatevi a distillerie conosciute e prodotti controllati. La differenza è tutta nella cura con cui la tequila è stata distillata e purificata, non semplicemente nella quantità di alcol contenuta.



lunedì 29 aprile 2024

Quando nel Regno Unito ordini una pinta di “bitter”: un viaggio nel cuore della tradizione birraria inglese


Entrare in un pub britannico e chiedere “una pinta di bitter” non è solo un gesto abituale: è un rito che affonda le radici in secoli di storia e tradizione brassicola. Ma cosa si nasconde davvero dietro questo semplice ordine? Per chi ha avuto la fortuna di lavorare in un birrificio come Thwaites, dove l’aria era pervasa da profumi intensi e genuini, questa domanda evoca ricordi ricchi di autenticità e sapore.

Per comprendere appieno cosa significhi ordinare una pinta di bitter nel Regno Unito, è necessario fare un passo indietro e osservare con attenzione il contesto in cui questa birra si inserisce. La maggior parte dei consumatori inglesi è ben consapevole di quale tipo di bitter sta ordinando: difatti, nel momento in cui chiedi “una pinta di bitter”, il barman ti risponderà spesso chiedendoti di specificare quale marca o versione preferisci, perché la varietà è ampia e ben radicata nelle abitudini locali.

Il termine “bitter”, che in inglese significa “amaro”, deriva dalla caratteristica principale di questa birra: un gusto leggermente amaro, più o meno marcato a seconda della ricetta e del produttore. Tuttavia, questa definizione è solo la punta dell’iceberg.

La bitter è una birra tradizionale inglese, una “ale” che si distingue per il metodo di fermentazione e di servizio. Non viene semplicemente fermentata e imbottigliata, ma segue la tecnica del “cask-conditioning”: la birra viene fermentata e poi lasciata maturare nella stessa botte dalla quale viene servita, mantenendo così una presenza viva di lieviti attivi. Questo processo conferisce alla birra un carattere fresco e dinamico, in continuo cambiamento, a differenza di birre filtrate o pastorizzate.

Questa modalità di servizio influisce profondamente anche sul profilo aromatico: la bitter si presenta con un aroma più maltato che fruttato o luppolato. Questo dipende anche dal tipo di luppolo impiegato, solitamente varietà britanniche come il Fuggle o l’East Kent Golding, che offrono sentori terrosi, legnosi e delicatamente erbacei. Questi aromi si distinguono nettamente da quelli più intensi e fruttati dei luppoli americani o continentali, conferendo alla bitter un’identità unica e ben riconoscibile.

Il colore di questa birra varia da un ambrato chiaro a tonalità più scure, ma sempre brillante, con una schiuma soffice e persistente che invita a un sorso lento e contemplativo. La gradazione alcolica è generalmente contenuta, intorno al 3.5-4.5%, rendendo la bitter una bevanda perfetta per accompagnare una lunga serata al pub senza appesantire.

Ricordo con piacere i giorni passati al birrificio Thwaites, immerso in quel mix di aromi dolci e speziati, dove la produzione di bitter era una vera e propria arte tramandata di generazione in generazione. L’odore del malto tostato, il frizzante richiamo del luppolo, e la consapevolezza di offrire qualcosa di più di una semplice bevanda: un’esperienza condivisa che unisce cultura, socialità e piacere.

Non stupisce, dunque, che la bitter abbia mantenuto un ruolo centrale nella cultura britannica, diventando la compagna ideale per le chiacchiere al bancone, per i brindisi fra amici o per i momenti di riflessione solitaria davanti a un bicchiere. Questa birra è una testimonianza viva di come il territorio, le tradizioni e le tecniche artigianali si intreccino per dare vita a un prodotto che va ben oltre la semplice bevanda alcolica.

Se ora mi chiedete cosa mi viene in mente a sentire “una pinta di bitter”, la risposta è semplice: un viaggio sensoriale che parte dal cuore di un birrificio storico e arriva dritto al tavolo del pub, dove ogni sorso racconta una storia fatta di passione, maestria e convivialità.

E voi, siete pronti a concedervi una pinta di bitter la prossima volta che varcherete la soglia di un pub inglese? Ne vale davvero la pena.



domenica 28 aprile 2024

Birra: 15 fatti straordinari sulla bevanda più antica (e amata) del mondo

 Amata, bevuta, celebrata: la birra non è solo una bevanda, ma un simbolo culturale millenario, capace di attraversare epoche, confini e civiltà. Dietro ogni bicchiere si nasconde un universo fatto di storia, miti, innovazioni e curiosità che continuano ad affascinare scienziati, storici e appassionati. Ecco i 15 fatti più sorprendenti – e rivelatori – su quella che è diventata la terza bevanda più consumata al mondo, dopo l’acqua e il tè.

1. Più antica della scrittura
La birra è più vecchia delle parole scritte. Le prime tracce risalgono a circa 7.000 anni fa in Mesopotamia, ben prima dell’invenzione della scrittura cuneiforme. Alcuni storici ipotizzano persino che la birra abbia anticipato l’agricoltura su vasta scala.



2. Una delle bevande più consumate del pianeta
Oggi, dopo l’acqua e il tè, la birra è la terza bevanda più bevuta al mondo, con miliardi di litri consumati ogni anno in ogni angolo del globo.

3. L’energia degli Egizi
Durante la costruzione delle piramidi, gli operai egiziani ricevevano razioni quotidiane di birra – fino a quattro litri al giorno – come fonte principale di nutrimento, energia e idratazione.

4. Punizioni babilonesi
A Babilonia, la birra era così importante che se un birraio falliva nella produzione, la legge era spietata: veniva annegato nella sua stessa birra. La qualità non era solo un requisito commerciale: era una questione di onore (e sopravvivenza).

5. Due famiglie, mille sapori
Nonostante le centinaia di varianti, tutta la birra si divide in due grandi categorie: lager, fermentata a basse temperature, e ale, fermentata ad alta temperatura. Le sfumature dipendono da ingredienti, lieviti, tecniche e tradizioni locali.

6. Mitologia vichinga
I Vichinghi credevano che, giunti nel Valhalla, li attendesse una capra gigante dalle mammelle colme di birra eterna. Per loro, la birra era una ricompensa divina.

7. Il “pane liquido” dei monaci
Nel Medioevo, i monaci europei seguivano diete a base di birra durante i digiuni religiosi. La consideravano “pane liquido”, poiché forniva calorie, vitamine e minerali – ma non rompeva il digiuno.

8. Il Medioevo beveva di più
Sorprendentemente, nel Medioevo si consumava molta più birra rispetto a oggi. La scarsa qualità dell’acqua potabile rendeva la birra, anche in versioni leggere, la bevanda quotidiana per adulti e bambini.

9. McDonald’s con la birra
In paesi come Francia, Germania, Portogallo e Corea del Sud, McDonald’s serve la birra accanto a patatine e hamburger. Un fast food con un tocco local.

10. La rivoluzione della lattina
Le prime lattine di birra apparvero nel 1935 e cambiarono per sempre il consumo casalingo. Finalmente si poteva bere birra fresca senza dover andare al pub.

11. Birra e sport: coppia inseparabile
Negli Stati Uniti, quasi la metà degli spettatori sportivi (48%) beve birra durante le partite. Per milioni di fan, birra e sport sono un binomio imprescindibile.

12. Prescritta come medicina
Nel Medioevo la birra veniva prescritta come rimedio per disturbi digestivi, febbre o problemi renali. Alcune ricette includevano erbe curative, anticipando le moderne birre artigianali con infusi botanici.

13. Un’industria da miliardi
Solo negli Stati Uniti, l’industria della birra genera oltre 100 miliardi di dollari all’anno. Un colosso economico che coinvolge agricoltori, birrifici, distributori e locali.

14. Il regno delle birre? Il Belgio
Con oltre 1.600 marchi diversi, il Belgio è il Paese con la più grande varietà di birre al mondo. Ogni birra ha il suo bicchiere, il suo monastero, la sua leggenda.

15. I campioni del bicchiere: i cechi
La Repubblica Ceca è, da anni, il Paese con il più alto consumo pro capite di birra al mondo. Qui la birra è più che una bevanda: è un bene culturale, un orgoglio nazionale.



Dietro la schiuma dorata di un boccale si nasconde una storia millenaria fatta di ingegno, superstizione, scienza e convivialità. Dalle piramidi ai monasteri, dal Valhalla ai pub moderni, la birra ha accompagnato l’umanità in ogni sua trasformazione, evolvendo da nutrimento primordiale a fenomeno culturale e sociale globale.

Bevendola oggi, brindiamo anche a tutto ciò che ha rappresentato: pane, medicina, mito e mercato, in un sorso solo.



sabato 27 aprile 2024

Il dono del rovere: come un secchio sbagliato ha cambiato per sempre il vino

C’era un tempo in cui il vino era solo un liquido da trasportare, e la bottiglia ancora non esisteva. Si conservava in giare di terracotta, fragili e inadatte a viaggiare per le strade accidentate dell’Impero. Poi arrivarono le botti di legno. E con loro, arrivò qualcosa di inatteso: il cambiamento stesso del vino.

Oggi le botti di rovere non sono semplicemente contenitori. Sono strumenti di trasformazione, catalizzatori di aromi, custodi di tempo. Ma la loro storia non nasce da un’intuizione enologica: nasce da un’esigenza logistica.

Furono i Galli, antichi abitanti dell’attuale Francia, a costruire robuste botti in quercia (rovere) per conservare la birra. Un giorno, un mercante romano ne intuì il potenziale: serviva qualcosa di più resistente delle giare, qualcosa che sopravvivesse alle strade sconnesse e ai lunghi viaggi. Trasferì il vino nelle botti di rovere.

Inizialmente fu solo una questione pratica. Ma poi accadde qualcosa di inaspettato.

Durante i lunghi trasporti, il vino rimaneva per settimane, mesi, addirittura anni, all’interno del legno. In quelle botti il vino respirava: attraverso la porosità naturale della quercia, minime quantità di ossigeno filtravano lentamente, innescando reazioni chimiche sottili ma cruciali. La ruvidità e l’asprezza di certi vini svanivano, lasciando spazio a una struttura più morbida, più armonica.

Il rovere non è neutro. Lascia il segno. Cede al vino composti aromatici come la vanillina, che dona profumi caldi e dolci, o i lattati che arricchiscono la consistenza. Con il tempo emergono note di spezie, cocco, chiodi di garofano, cuoio, tabacco. Ogni sfumatura dipende dall’origine del legno (francese, americano, balcanico), dalla tostatura interna della botte, dalla sua età.

Inoltre, il rovere è ricco di tannini, elementi strutturali che contribuiscono alla longevità del vino. Un vino che matura in rovere ben bilanciato può evolversi per decenni, cambiando profilo aromatico anno dopo anno, con quella complessità che solo il tempo e il legno sanno donare.

Perché proprio il rovere? Perché è duro ma lavorabile, impermeabile ai liquidi ma permeabile all’ossigeno, e soprattutto perché interagisce con il vino senza dominarlo. Altri legni – castagno, ciliegio, pino – sono stati usati nel corso della storia, ma nessuno ha raggiunto lo stesso equilibrio.

Le botti in rovere sono state perfezionate nel tempo: nella Borgogna, si predilige la barrique da 228 litri; a Bordeaux, si usano botti da 225 litri; altrove, botti grandi da 1.000 litri in su. Ogni forma, ogni dimensione, ogni tipo di rovere imprime una firma unica sul vino.

Oggi, in un’epoca di acciaio e vetro, la botte di rovere continua a essere uno degli strumenti più rispettati e versatili della vinificazione moderna. È amata tanto per i rossi strutturati (Cabernet Sauvignon, Nebbiolo, Syrah) quanto per certi bianchi ricchi e complessi (Chardonnay, Viognier). Ma il suo uso non è neutro: va dosato, capito, calibrato. Una barrique nuova può sovrastare un vino fragile; una botte esausta può non contribuire più.

Eppure, dietro ogni grande vino affinato in legno, c’è ancora quell’intuizione primordiale: il vino che respira nel buio, che si affina lentamente, che assorbe il mondo dal legno che lo contiene.

La botte non era nata per migliorare il vino. Era solo un secchio migliore. Ma quell’errore divenne metodo. La necessità si trasformò in tecnica, la casualità in arte.

Oggi le botti di rovere sono custodi di memoria, testimoni silenziose di una lenta trasformazione. Non conservano solo vino: lo plasmano, lo raccontano, lo proiettano nel tempo.

Ed è forse questo il motivo per cui, a distanza di secoli, continuiamo a brindare nel nome di un errore fortunato.



venerdì 26 aprile 2024

Maker’s Mark: è whisky o bourbon? Entrambi.

 



L’etichetta lo dice chiaramente: “Kentucky Straight Bourbon Whisky”.

Maker’s Mark è tecnicamente sia un whisky che un bourbon. Per essere più precisi, si tratta di bourbon, che è una sottocategoria del whisky. Tutti i bourbon sono whisky, ma non tutti i whisky sono bourbon.

Vediamo perché.

Che cos’è il whisky?

Il whisky (o whiskey, con la “e”, a seconda della tradizione) è un distillato alcolico ottenuto dalla fermentazione di cereali, distillato e spesso invecchiato in botti di legno. Il tipo di cereale usato, il processo di distillazione, l'invecchiamento e il luogo di produzione determinano le diverse varietà: scotch, irish, canadian, american, giapponese, ecc.

Cos’è il bourbon?

Il bourbon è una tipologia ben definita di whisky, con regole rigide stabilite dalla legge statunitense:

  • deve essere prodotto negli Stati Uniti;

  • il mosto deve contenere almeno il 51% di mais;

  • deve essere distillato a non più di 80% vol;

  • invecchiato in botti nuove di rovere bianco americano carbonizzate;

  • imbottigliato a non meno di 40% vol (80 proof).

Il termine "Kentucky Straight Bourbon Whisky" come quello di Maker’s Mark aggiunge altri due elementi:

  • Kentucky: il bourbon è stato distillato e invecchiato in Kentucky, stato storicamente legato alla produzione;

  • Straight: il bourbon ha avuto almeno due anni di invecchiamento e nessun additivo (tranne l’acqua per portarlo a gradazione).

E la grafia?

Un dettaglio curioso: Maker’s Mark scrive “whisky” senza la “e”, una scelta inconsueta per un prodotto americano. Negli Stati Uniti è più comune la forma “whiskey”, in stile irlandese. L’uso della forma scozzese da parte di Maker’s Mark è un omaggio alle origini scozzesi della famiglia Samuels, fondatrice della distilleria.

In sintesi:

  • Maker’s Mark è un bourbon, quindi un tipo specifico di whisky;

  • Rispetta tutti i requisiti legali per essere definito Kentucky straight bourbon whisky;

  • È uno dei pochi bourbon a scrivere whisky senza “e”.

Se ti chiedi se Maker’s Mark sia whisky o bourbon, la risposta più precisa è: è un bourbon, e quindi, sì, è anche un whisky. Ma è proprio il fatto di essere bourbon a renderlo unico.



giovedì 25 aprile 2024

Viaggio al termine della botte: un mese senza alcol per rigenerare corpo e mente

 

Un semplice gesto, apparentemente modesto, può rappresentare una svolta decisiva per la salute fisica e mentale di milioni di persone: rinunciare all’alcol per un solo mese. Questa scelta, spesso percepita come una sfida personale, si rivela in realtà un’opportunità concreta per “resettare” il modo in cui consumiamo bevande alcoliche, con effetti benefici che si manifestano fin dalle prime 24 ore.

Secondo studi recenti, posare il fiasco per 30 giorni consecutivi è sufficiente a migliorare sensibilmente il benessere generale, contrastando comportamenti rischiosi come il binge drinking, ovvero il consumo eccessivo e rapido di alcol che può avere conseguenze gravi sulla salute. Il corpo risponde immediatamente: già dopo un solo giorno senza alcol si osservano miglioramenti come una migliore idratazione e livelli più stabili di zucchero nel sangue, fondamentali per mantenere energia e concentrazione.

Questi primi segnali, pur importanti, rappresentano solo l’inizio di un percorso di recupero. I veri benefici si consolidano con il proseguire dell’astinenza: il fegato inizia a rigenerarsi, la pressione sanguigna tende a stabilizzarsi e la qualità del sonno migliora drasticamente, con effetti positivi sul sistema immunitario e sulla salute cardiovascolare. Dal punto di vista mentale, si riscontrano una maggiore chiarezza di pensiero, una riduzione dell’ansia e un aumento della capacità di gestire lo stress.

Il fenomeno del “reset alcolico” non si limita a chi soffre di dipendenza, ma coinvolge anche chi consuma alcolici in modo regolare ma moderato. Questa pausa forzata o volontaria può infatti modificare la percezione del bere, aiutando a ridurre il consumo compulsivo e a promuovere uno stile di vita più equilibrato e consapevole.

Gli esperti sottolineano l’importanza di un approccio graduale e supportato, in particolare per chi presenta forme di dipendenza più marcate. Tuttavia, per la maggior parte delle persone, un mese senza alcol può rappresentare un punto di svolta, con ripercussioni positive che si estendono ben oltre il periodo di astinenza stessa.

In un’epoca in cui il consumo di alcol è spesso normalizzato e associato a momenti di socialità, campagne di sensibilizzazione e iniziative come il “Dry January” stanno guadagnando terreno, offrendo un’opportunità concreta per riflettere sulle abitudini personali e sulla salute pubblica.

Il messaggio è chiaro e sostenuto dai dati: spegnere per un mese la “botte” alcolica non solo migliora la qualità della vita, ma rappresenta un investimento prezioso per il futuro, capace di influenzare positivamente corpo e mente in modi che spesso sottovalutiamo.






mercoledì 24 aprile 2024

Perché James Bond vuole il suo Vodka Martini "agitato, non mescolato"


Nel panorama dei cocktail classici, poche frasi sono diventate leggendarie quanto quella pronunciata da James Bond al momento dell’ordinazione: “Vodka Martini. Agitato, non mescolato.”
Un dettaglio apparentemente minore, ma che ha suscitato per anni discussioni accese tra barman, appassionati di mixology e fan dell’agente segreto più famoso del cinema. Ma cosa si cela davvero dietro questa richiesta? È solo stile? O c’è qualcosa di più?

Per comprendere la preferenza di Bond, bisogna partire dalle basi della preparazione di un Martini.

  • Mescolare (stirring): è la tecnica tradizionale per i drink limpidi e composti solo da alcolici (come il Martini classico). Si utilizza un mixing glass e un cucchiaio lungo, mescolando delicatamente il liquore con ghiaccio per raffreddarlo e diluirlo leggermente. Il risultato è un drink cristallino, elegante, con una consistenza setosa.

  • Shakerare (shaking): si utilizza per cocktail che contengono succhi, liquori densi o ingredienti non alcolici, come agrumi, panna o uova. Agitando energicamente, si introduce molta più aria e si scioglie più ghiaccio, ottenendo una maggiore diluizione e un raffreddamento più marcato. Ma si sacrifica la limpidezza: il risultato è un drink torbido, schiumoso, più ruvido al palato.

Nel caso del Martini, mescolare è la tecnica canonica. È ciò che consente al cocktail di mantenere la sua trasparenza brillante, con la sola oliva o scorza di limone a decorare il bicchiere. Shakerarlo, al contrario, lo rende torbido, e a tratti persino aggressivo in bocca.

James Bond ordina il suo Martini shakerato non per ignoranza, ma per una precisa scelta di stile. Una scelta ereditata dal suo creatore, Ian Fleming, che aveva la stessa preferenza. Per entrambi, ciò che conta è la temperatura: uno shaker ben agitato raffredda il drink più a fondo di quanto possa fare una semplice mescolata.

Nel mondo di Bond, la freddezza è tutto: autocontrollo, calcolo, distanza emotiva. Ecco quindi che un Martini gelido, quasi tagliente, diventa perfetta rappresentazione liquida della sua personalità. Torbido? Sì. Ma glaciale. E letale.

Come scrisse lo stesso Fleming nel romanzo Casino Royale, Bond beve un drink speciale (il "Vesper", a base di gin, vodka e Kina Lillet) "molto grande, molto forte e molto freddo".

Tecnicamente, no. Se un cocktail composto da vodka (o gin) e vermouth secco viene shakerato invece che mescolato, non si chiama più Martini, ma assume un altro nome: Bradford.

Il Bradford ha la stessa ricetta del Martini, ma l’aspetto e la consistenza sono diversi. Lo shaker lo rende più opaco, più leggero per via della maggiore diluizione, e spesso più pungente, perché l’agitazione “apre” certi profili aromatici. Ma nel purismo della mixology, un Martini agitato è un’eresia.

Eppure, il cinema ha fatto il resto: ormai l’immagine del Martini agitato è associata indissolubilmente all’agente 007, anche se — per usare un paradosso — il suo cocktail preferito non è realmente un Martini.

La scelta di Bond potrebbe anche riflettere un atteggiamento anticonformista. In un mondo in cui tutti ordinano Martini mescolati, lui lo vuole agitato. Vuole qualcosa di diverso, di più netto, di più freddo. È un segnale di controllo, anche nel dettaglio più banale: il modo in cui si beve.

C'è anche chi ha ipotizzato motivazioni più tecniche: secondo alcuni esperti, shakerando si ottiene una maggiore miscelazione tra vodka e vermouth, rendendo il sapore più uniforme. Altri sostengono che, soprattutto per la vodka (rispetto al gin), la torbidità non sia un problema, anzi, rafforza la sensazione di freschezza.

C'è infine chi legge nella preferenza di Bond una dichiarazione di disinteresse per l'estetica tradizionale: a lui non importa che il drink sia limpido. Gli importa che sia efficace.

Nel mondo reale della mixology, chiedere un Martini shakerato ti farà quasi sicuramente sollevare qualche sopracciglio dietro il bancone. Ma nel mondo narrativo di James Bond, la scelta è perfetta: riflette un personaggio glaciale, preciso, controcorrente.

In fondo, quella frase — “agitato, non mescolato” — non è solo un’istruzione al barista, ma una firma personale, una dichiarazione d’intenti. James Bond non è interessato alla forma quanto all’efficacia. E se per ottenerla deve infrangere una regola del galateo dei cocktail, non ci pensa due volte.

Forse non sarà un Martini "fatto come si deve", ma è il Martini di Bond, ed è questo che conta.



 
Wordpress Theme by wpthemescreator .
Converted To Blogger Template by Anshul .