martedì 2 aprile 2024

Whisky del Vecchio West: una bevanda pericolosa, un simbolo culturale

Se il sapore del whisky moderno vi scalda l’anima, il suo antenato del Vecchio West probabilmente ve l’avrebbe bruciata. Il whisky che scorreva nei saloon polverosi di Dodge City o nei baracconi di Tombstone tra la metà e la fine dell’Ottocento era ben lontano dall’essere un distillato raffinato: era spesso un intruglio ruvido, pericoloso e profondamente radicato nella cultura brutale della frontiera.

Il whisky nel selvaggio West era tanto una merce quanto un’arma sociale. Le sue origini risalgono ai commerci lungo il Mississippi: acquistato a basso costo a St. Louis per circa 20 centesimi al gallone, veniva diluito con acqua del fiume – talvolta contaminata – durante il trasporto verso ovest. Una volta raggiunti i remoti avamposti commerciali, il prezzo lievitava: una pinta poteva costare fino a 5 dollari, una cifra esorbitante per l’epoca. Per i trapper e i cercatori d’oro, quella bevanda densa e spesso amara era parte integrante dello scambio, usata tanto per socializzare quanto per sedare le fatiche e i traumi di una vita ai margini della civiltà.

Nei saloon, la qualità del whisky dipendeva più dalla posizione geografica che dalla ricetta. Le grandi città dell’Ovest, come Virginia City e Denver, riuscivano talvolta a importare bottiglie di bourbon autentico da distillerie orientali. Tuttavia, nei campi minerari e nei villaggi di frontiera, il cosiddetto “rotgut whisky” (letteralmente “whisky spaccabudella”) regnava sovrano. Questa bevanda casalinga era ottenuta con cereali e melassa di bassa qualità, e spesso corretta con ingredienti decisamente insoliti per aumentarne l’effetto e il volume: tabacco nero, peperoncini rossi, acqua fangosa di fiume e, nella variante più folkloristica, addirittura teste di serpente a sonagli.

Una di queste ricette era nota come “Ol’ Snakehead”, che prevedeva – tra gli altri ingredienti – una libbra di tabacco da masticare, mezzo chilo di melassa, due teste di serpente per “dargli spirito” e un ferro di cavallo come strumento empirico di valutazione: se affondava, il whisky non era pronto. Se galleggiava, era tempo di servire.

Ma le implicazioni del commercio del whisky andavano ben oltre il gusto o la gradazione alcolica. Le relazioni con le popolazioni native, ad esempio, furono segnate da un uso strumentale e spesso tossico della bevanda. Gli indigeni ricevevano il peggiore dei whisky: non solo diluito, ma addirittura adulterato con sostanze velenose come acido solforico, stricnina, cocculus indicus, trementina e tabacco. Questa pratica spietata e disonesta provocò tragedie, avvelenamenti e fu spesso all'origine di feroci scontri tra coloni e tribù locali.

Nonostante ciò, il whisky divenne parte integrante del mito della frontiera. Nei saloon, il bicchiere colmo rappresentava molto più di una bevanda: era la promessa di un momento di tregua, una pausa tra le sparatorie e le giornate di lavoro estenuanti. Per molti pionieri, era il primo – e spesso l’unico – lusso disponibile.

Naturalmente, accanto al whisky scorreva fiume anche la birra, molto più comune e meno pericolosa. Tuttavia, nelle cronache e nell’immaginario, è il whisky a dominare: liscio, torbido e implacabile come i deserti che lo circondavano.

Oggi, alcune distillerie artigianali si ispirano a quelle ricette d’epoca per riproporre – in versione depurata e sicura – “whisky da saloon” dal sapore forte e affumicato. Se ne bevete uno e vi sembra “forte come l’inferno”, forse è solo un assaggio del Vecchio West, dove ogni sorso poteva essere un rischio… o una rivelazione.







lunedì 1 aprile 2024

Memorial Day, fratellanza e un decanter che racconta una storia: il tributo silenzioso di un eroe a chi ha servito

Mike "Mack" McAllister è un uomo di poche parole, ma quando parla, lo fa con la gravità di chi ha visto troppo per sprecare fiato. Ex cecchino dei Marines, oggi pompiere, ogni anno si ritrova con i suoi tre fratelli d’armi in un cortile anonimo di provincia per ricordare ciò che non si può dimenticare: il servizio, il sacrificio, e coloro che non sono tornati. È una tradizione semplice, fatta di buon cibo, risate trattenute e brindisi silenziosi. Una di quelle ritualità americane che sembrano piccole, ma che reggono il peso di una nazione.

Quest'anno, però, qualcosa è cambiato.

Seduti attorno a un tavolo di legno logorato dal tempo, i quattro veterani hanno condiviso ancora una volta le loro specialità culinarie: le costolette affumicate di Mack, lo stufato tramandato da generazioni di James, gli hamburger caserecci di Bobby, il pane di mais di Danny. Ma quando la luce del tramonto ha iniziato a dissolversi nell’ombra della sera, Mack ha posto il bicchiere sul tavolo e annunciato la notizia che nessuno voleva sentire: “Mi trasferisco in Texas il mese prossimo.” La sua voce era ferma, ma il silenzio che seguì pesava come piombo.

James fu il primo a rompere il gelo. “Quindi… non tornerai per queste?”

La risposta fu un cenno. Ma Mack non se n’era andato senza lasciare qualcosa. Da una scatola posata accanto a lui tirò fuori quattro Decanter degli Eroi SheremArt™, ognuno inciso con l’emblema delle rispettive forze armate: l’Esercito per James, la Marina per Bobby, i Marines per sé stesso, e l’Aeronautica per Danny. Su ciascuna bottiglia, parole incise come motti incrollabili: Questo difenderemo, Onore, Coraggio, Impegno, Semper Fidelis, Ali d’onore.

“Così ogni anno, ovunque siamo, potremo sempre brindare insieme,” disse consegnando i decanter, uno a uno.

Non servivano altre parole. Il silenzio era carico di comprensione. Bobby seguì con le dita l’incisione, come se rileggesse una preghiera. James annuì, gli occhi fissi nel vuoto. In quelle caraffe c’era più di un contenitore di cristallo: c’era una promessa. Un vincolo. Una storia.

Il Decanter degli Eroi SheremArt™ non è solo un prodotto, ma una dichiarazione. Realizzato in cristallo ottico senza piombo, soffiato a mano da maestri vetrai, è un’opera d’arte che resiste al tempo e all’usura. Le incisioni laser degli emblemi militari non sbiadiscono né si graffiano, perché non rappresentano semplicemente un mestiere: rappresentano un giuramento.

E non è solo simbolismo: parte dei proventi di ogni vendita va a sostegno delle organizzazioni per veterani, conferendo al gesto d’acquisto un significato che va ben oltre il consumo.

Finora sono oltre 18.000 i decanter venduti, un numero che cresce ogni giorno grazie al passaparola di chi cerca un regalo carico di significato per il Veterans Day, il Memorial Day o il 4 luglio. Un oggetto che ha già trovato posto nei salotti di veterani, collezionisti e famiglie, come confermano le centinaia di recensioni entusiaste.

Jessica R. racconta: “L’ho regalato a mio suocero per il suo pensionamento. Era commosso. Ha detto che è uno dei doni più significativi mai ricevuti.” Luke W. sottolinea l’artigianalità: “Il design in edizione limitata lo rende un oggetto da collezione. È un modo tangibile per onorare chi ha servito.” E Brian W. aggiunge: “Vale ogni centesimo. Spesso le parole non bastano, ma questo decanter parla per noi.”

Oggi, con un’offerta limitata al 50% di sconto – 44,99 dollari sul sito ufficiale – il Decanter degli Eroi SheremArt™ è diventato accessibile a chiunque voglia commemorare un familiare, un amico o un compagno d’armi. Ma è molto di più di un affare: è un gesto di riconoscenza inciso nel vetro.

E mentre si avvicina il Memorial Day, migliaia di americani alzeranno un bicchiere come fanno ogni anno. In alcuni casi, con le stesse mani che un tempo hanno imbracciato un fucile. In altri, in memoria di chi quelle mani le ha perse in battaglia.

In Texas, Mike "Mack" McAllister farà lo stesso. La sua caraffa scintillerà alla luce del tramonto, e il whisky all’interno – ambrato, denso, silenzioso – racconterà una storia che non ha bisogno di essere riscritta.

Perché alcune promesse non muoiono mai. Alcune fratellanze, semplicemente, vivono per sempre.



domenica 31 marzo 2024

Assenzio: il Verde dell’Estasi – Storia, Miti e Ricetta di un Distillato Controverso

Viaggio nell’assenzio: dalla Belle Époque parigina alle cucine contemporanee, tra alambicchi, poeti maledetti e rituali sensoriali. Una guida completa per comprendere e preparare il liquore più discusso della storia.

C'è un liquore che ha attraversato la storia europea come un fulmine verde, incendiando menti, ispirando artisti e sollevando paure: l’assenzio. Non è soltanto un distillato a base di erbe aromatiche; è un simbolo culturale, una leggenda liquida intrisa di malintesi, scandali, genialità e rituali. Venerato e proibito, osannato e demonizzato, l’assenzio ha avuto un impatto profondo sulla cultura occidentale, soprattutto tra Ottocento e Novecento, guadagnandosi un posto nella storia dell’arte, della letteratura e – oggi più che mai – della mixology.

Questa bevanda dal colore verde smeraldo, che prende il nome dall’Artemisia absinthium, pianta selvatica e amarognola, è stata a lungo associata a stati alterati di coscienza, ispirazioni visionarie e decadenza intellettuale. Ma al di là dei miti e delle paure collettive, l’assenzio resta un capolavoro della distillazione botanica, un liquore complesso, elegante e tecnicamente raffinato, che oggi sta vivendo una rinascita internazionale, sia nelle distillerie artigianali sia sulle tavole dei più curiosi esploratori del gusto.

La storia dell’assenzio affonda le sue radici nell’antichità. L’Artemisia absinthium era nota già a Greci e Romani per le sue proprietà digestive, toniche e antipiretiche. Dioscoride, medico greco del I secolo d.C., ne descriveva l’uso in numerose preparazioni curative. Ma è solo alla fine del Settecento che nasce l’assenzio come liquore vero e proprio, in Svizzera, grazie alla famiglia Henriod nella Val-de-Travers. Il medico francese Pierre Ordinaire contribuì alla diffusione della ricetta, inizialmente come tonico medicinale, a base di assenzio maggiore, anice verde, finocchio e altre erbe aromatiche.

Fu nella seconda metà dell’Ottocento, con l’avvento della distillazione industriale e la crescente popolarità nei bistrot francesi, che l’assenzio divenne una bevanda diffusa a livello popolare. Venne ribattezzato “La Fée Verte”, la Fata Verde, per il suo colore brillante e l’effetto leggermente euforizzante. A Parigi, tra Montmartre e il Quartiere Latino, diventò il liquore preferito di poeti, pittori, pensatori e bohémiens. Da Baudelaire a Rimbaud, da Van Gogh a Toulouse-Lautrec, intere generazioni di artisti ne fecero uso – e abuso – attribuendogli un’aura mistica.

Con il successo arrivarono anche le polemiche. Alla fine dell’Ottocento iniziarono a diffondersi timori legati a un suo presunto effetto allucinogeno. La sostanza incriminata era la tujone, un composto presente naturalmente nell’Artemisia absinthium. Alcuni studi dell’epoca, oggi screditati, collegavano il consumo eccessivo di assenzio a comportamenti aggressivi, instabilità mentale e dipendenza.

Nel 1905, il caso di Jean Lanfray, un contadino svizzero che uccise la moglie e le figlie dopo aver consumato (tra l’altro) anche assenzio, scatenò una campagna morale e mediatica che portò a numerose proibizioni. Nel 1915, Francia, Svizzera e Stati Uniti vietarono formalmente la produzione e la vendita di assenzio, relegandolo nell’ombra per quasi un secolo.

Solo negli anni '90, grazie a nuove ricerche scientifiche che dimostrarono l’infondatezza dei timori storici, si è avuta una graduale riabilitazione. Oggi l’assenzio è nuovamente legale in gran parte del mondo, purché la concentrazione di tujone non superi i limiti stabiliti (35 mg/l nell’Unione Europea).

Produrre un assenzio autentico richiede competenza botanica, abilità distillatoria e rispetto della tradizione. La ricetta base prevede tre piante fondamentali: Artemisia absinthium, anice verde e finocchio. A queste si aggiungono spesso melissa, issopo, coriandolo, angelica e altre erbe che conferiscono complessità e sfumature.

Dopo la macerazione delle erbe in alcol neutro ad alta gradazione, la miscela viene distillata lentamente in alambicchi di rame. La fase successiva, la colorazione naturale, avviene tramite una seconda infusione a freddo di erbe selezionate che rilasciano i pigmenti verdi. Il risultato è un distillato limpido, profumato, intenso, che va degustato con attenzione e secondo un rituale ben preciso.

Contrariamente all'immaginario popolare – che spesso associa l’assenzio a cucchiai fiammeggianti e spettacoli pirotecnici – il metodo tradizionale è raffinato, quasi cerimoniale. Si serve in un bicchiere largo, su cui si appoggia un cucchiaino traforato con una zolletta di zucchero. Goccia dopo goccia, si fa cadere acqua ghiacciata sulla zolletta, che si scioglie lentamente e scivola nel bicchiere. Questo processo diluisce l’alcol, libera gli oli essenziali e fa emergere il caratteristico fenomeno della louche: il liquore si trasforma in un’emulsione lattiginosa e opalescente, rivelando tutta la ricchezza aromatica.

Ricetta casalinga dell’assenzio (versione semplificata, per uso domestico)

Ingredienti (per 1 litro circa):

  • 30 g di Artemisia absinthium (assenzio maggiore essiccato)

  • 25 g di anice verde

  • 25 g di semi di finocchio

  • 10 g di issopo

  • 5 g di coriandolo

  • 2 g di angelica

  • 1 l di alcol puro al 95%

  • 200 ml di acqua minerale naturale

  • Filtro a maglia fine o carta da filtro

Nota: Si raccomanda massima attenzione nell'uso delle erbe. L’Artemisia absinthium, se consumata in grandi quantità, può essere tossica. Per un uso sicuro, è consigliato non superare le dosi indicate.

Procedura

  1. Macerazione
    In un contenitore in vetro scuro, unire tutte le erbe all’alcol e lasciare macerare per 10 giorni in un luogo fresco, agitando quotidianamente.

  2. Filtraggio
    Filtrare il contenuto attraverso un panno di lino o una garza, eliminando le erbe esauste.

  3. Diluzione
    Aggiungere l’acqua, mescolando bene. Questa fase serve a portare il liquore a una gradazione più bassa (circa 65–70%).

  4. Riposo
    Lasciar riposare il liquido filtrato per almeno 1 mese in bottiglie sigillate, al buio. Più il riposo si prolunga, migliore sarà l’armonia dei profumi.

  5. Degustazione
    Servire diluito in rapporto 1:3 o 1:4 con acqua fredda, secondo gusto personale. Evitare la fiamma: non è parte della tradizione storica ed è dannosa per l’aroma.

Nel panorama attuale, l’assenzio è protagonista di una vera e propria rinascita culturale. Distillerie artigianali, in Svizzera, Francia, Italia e Stati Uniti, stanno recuperando antiche ricette e metodi tradizionali, offrendo prodotti autentici, spesso in edizione limitata. Nei cocktail bar di tendenza, l’assenzio è diventato ingrediente ricercato, usato con parsimonia per donare profondità aromatica e una nota amaricante distintiva.

Allo stesso tempo, cresce l’interesse da parte di gourmet e appassionati di cucina sperimentale. L’assenzio può infatti essere impiegato con sorprendente efficacia anche in cucina: emulsioni agrumate, salse per pesce, cioccolatini ripieni o dolci da forno con note speziate sono solo alcuni esempi delle sue potenzialità.

Bere assenzio non è solo un atto gastronomico, ma un gesto culturale. Significa entrare in contatto con un pezzo di storia europea, con una visione del mondo che ha attraversato le epoche tra arte e controversia. Oggi possiamo riscoprirlo con consapevolezza, con gusto, con rispetto per la sua tradizione e attenzione per il suo equilibrio.

In un mondo dove la standardizzazione spesso cancella le sfumature, l’assenzio ci ricorda che la complessità è una ricchezza. Ogni goccia racchiude un racconto fatto di erbe, poesia, e distillazione alchemica.


sabato 30 marzo 2024

Aurum, l’Oro Liquido d’Abruzzo: Un Tesoro da Scoprire tra Storia, Gusto e Tradizione


Un viaggio tra le origini romanzesche, l’aroma persistente delle arance abruzzesi e una ricetta casalinga per celebrare l’eleganza di un liquore unico nel suo genere

Tra i vicoli acciottolati di Pescara e le fragranze agrumate della costa adriatica si cela un segreto alcolico che profuma di nobiltà e artigianato: l’Aurum. Questo liquore, dal colore caldo e ambrato, è il frutto di un’antica ricetta che unisce la scorza d’arancia a un distillato delicato, il tutto armonizzato da un lungo processo di infusione che restituisce un gusto intenso, rotondo, con una morbidezza che accarezza il palato.

Ma Aurum non è soltanto un prodotto da degustare: è un emblema di eleganza abruzzese, un liquore che ha saputo conquistare il favore dei poeti, dei gastronomi e dei viaggiatori fin dal secolo scorso, e che oggi ritorna al centro dell’attenzione grazie alla sua versatilità in cucina e alla riscoperta della liquoristica artigianale italiana.

L’origine dell’Aurum si intreccia con la cultura e la letteratura. Si narra che l’idea del nome fu suggerita nientemeno che da Gabriele D’Annunzio, pescarese illustre e cultore della bellezza in tutte le sue forme. Il poeta, affascinato dalla tonalità dorata del liquore e dal profumo penetrante delle arance, volle coniare un nome che evocasse tanto la ricchezza (l’oro: “aurum” in latino) quanto la materia prima fondamentale (“aurantium”, arancia dolce). L’accostamento non fu casuale: nella sua poetica, D’Annunzio elevava ogni gesto e ogni sapore a esperienza estetica. Aurum non era solo un liquore, ma un momento, una visione.

La vera nascita commerciale del liquore risale agli anni Venti del Novecento, quando la famiglia Amedei, già nota nel campo della distillazione, decise di formalizzare una vecchia ricetta di famiglia, arricchendola con spezie e alcol di qualità. L’obiettivo era chiaro: creare un prodotto raffinato, elegante, perfetto come digestivo ma anche ideale per accompagnare dessert e conversazioni serali.

Da allora, Aurum ha attraversato il secolo con discrezione ma costanza, diventando presenza fissa nelle case abruzzesi e nei ristoranti del centro Italia. La sua bottiglia dalle linee eleganti, spesso in vetro scuro con etichette dorate, rappresenta ancora oggi un riferimento nel panorama dei liquori mediterranei.

Chi ha la fortuna di assaggiarlo scopre subito una struttura unica: l’arancia è protagonista, ma non invadente. Le note dolci e leggermente amaricanti delle scorze si fondono con leggere sfumature speziate, tra cui si possono cogliere sentori di vaniglia, cannella e miele. L’aroma è persistente ma armonico, mentre la consistenza in bocca risulta vellutata, quasi cremosa. La gradazione, intorno ai 40 gradi, è ben bilanciata: il calore alcolico arriva con gradualità, permettendo agli aromi di svilupparsi appieno.

Aurum si presta benissimo al consumo liscio, leggermente refrigerato, oppure a temperatura ambiente nei mesi invernali. Ma si rivela sorprendente anche nella miscelazione, soprattutto nei cocktail a base di whisky, rum o bitter secchi, cui conferisce una nota agrumata e sofisticata. Nei dessert, è spesso impiegato come bagna per pan di Spagna, nelle creme pasticcere o persino nei semifreddi, dove il suo profumo emerge con discrezione e raffinatezza.

Tra le preparazioni più affascinanti in cui Aurum è protagonista, spicca la “Torta all’Aurum e cioccolato fondente”, un dolce elegante e avvolgente che celebra la ricchezza del liquore abruzzese unendolo al carattere deciso del cacao. Un abbinamento che richiama l’equilibrio tra dolcezza e intensità, tra memoria e innovazione.

Ricetta: Torta al Cioccolato Fondente e Aurum

Ingredienti per uno stampo da 22 cm:

Per l’impasto:

  • 200 g di cioccolato fondente al 70%

  • 150 g di burro

  • 120 g di zucchero semolato

  • 3 uova intere

  • 80 g di farina 00

  • 1 cucchiaino di lievito per dolci

  • Un pizzico di sale

  • 80 ml di Aurum

Per la ganache:

  • 100 g di cioccolato fondente

  • 80 ml di panna fresca

  • 30 ml di Aurum

Preparazione

  1. Preparazione dell’impasto:
    Sciogliere il cioccolato fondente a bagnomaria insieme al burro. Una volta fuso, mescolare bene e lasciar intiepidire. In una ciotola a parte, sbattere le uova con lo zucchero fino a ottenere un composto chiaro e spumoso. Aggiungere il cioccolato fuso, mescolare delicatamente, poi incorporare la farina setacciata con il lievito e il sale. Infine, aggiungere l’Aurum e amalgamare fino a ottenere un impasto omogeneo.

  2. Cottura:
    Versare il composto in uno stampo imburrato e infarinato. Cuocere in forno statico preriscaldato a 170°C per circa 30–35 minuti. La torta deve risultare umida all’interno ma ben cotta sui bordi. Sfornare e lasciar raffreddare.

  3. Ganache al cioccolato e Aurum:
    In un pentolino, scaldare la panna fino a sfiorare il bollore. Togliere dal fuoco e aggiungere il cioccolato spezzettato. Mescolare fino a ottenere una crema liscia e lucida. Aggiungere l’Aurum e mescolare nuovamente. Versare la ganache sulla torta raffreddata, lasciando che coli leggermente sui lati.

  4. Decorazione e servizio:
    Decorare con scorze d’arancia candita o granella di nocciole. Servire a temperatura ambiente, magari accompagnata da un piccolo calice di Aurum.

Oggi, in un tempo in cui l’attenzione si sposta spesso verso tendenze passeggere e sapori globalizzati, l’Aurum si impone come un baluardo dell’identità abruzzese. È un liquore che non ha bisogno di reinventarsi: resta fedele alla sua formula originale, pur aprendo la strada a nuovi usi e sperimentazioni.

Dalle botteghe artigiane alle tavole delle feste, il suo profumo rievoca innumerevoli ricordi familiari. Per molti abruzzesi, rappresenta il brindisi della domenica, la chiusura dei pranzi importanti, la bottiglia che si apre solo in occasioni speciali. Ma è anche, sempre più spesso, una scoperta per chi visita la regione e desidera portare con sé un frammento autentico di sapore locale.

Aurum è molto più di una bevanda alcolica: è un racconto in forma liquida. Ogni sorso parla di artigianato, di passione, di una terra che non ha mai smesso di credere nel valore delle proprie radici. E come ogni racconto ben narrato, lascia un retrogusto che invita a tornarci su, a riflettere, a condividere.


venerdì 29 marzo 2024

Il Cerasuolo d’Abruzzo: Tradizione, Terra e Tavola

Viaggio tra i filari, le radici contadine e il gusto autentico del rosato d’Italia

Nel cuore dell’Italia centro-meridionale, tra le colline ventilate che guardano l’Adriatico e le cime silenziose della Majella, nasce un vino che sfida le convenzioni, racchiudendo nella sua veste brillante e nel profumo di ciliegie una storia contadina autentica e una rinascita enologica tutta italiana: il Cerasuolo d’Abruzzo.

Non è un rosé qualunque. Il Cerasuolo ha una personalità decisa, dal colore intenso che vira al rubino chiaro, ben lontano dalle tenui sfumature provenzali. È un vino che affonda le radici nella stessa terra che ha dato i natali al Montepulciano d’Abruzzo, da cui il Cerasuolo deriva direttamente. La differenza è tutta nel tempo: la macerazione sulle bucce dura solo poche ore, quanto basta per regalare al mosto un colore acceso e un profilo aromatico vibrante.

Questo vino ha sempre accompagnato la cucina quotidiana delle famiglie abruzzesi. La sua capacità di coniugare freschezza e struttura lo rende un compagno ideale tanto per i piatti semplici quanto per quelli più elaborati, ed è proprio in questa versatilità che si coglie il suo legame indissolubile con la terra d’origine.

I contadini abruzzesi, già in epoca preunitaria, producevano un vino “chiaro” da bere giovane, destinato al consumo familiare o ai mercati locali. Questo vino non aveva un nome ufficiale, ma si riconosceva dal colore brillante e dall’aroma fruttato. Solo nel 2010 ha ottenuto una sua denominazione autonoma all’interno della DOC “Montepulciano d’Abruzzo”, diventando a tutti gli effetti un vino a sé.

Il termine “Cerasuolo” fa riferimento diretto alla tonalità delle ciliegie mature, che caratterizza tanto il colore quanto il profilo olfattivo del vino. Non è un caso che il nome evochi un frutto: il bouquet del Cerasuolo è dominato da note di marasca, fragoline di bosco, melograno, talvolta arricchite da sentori floreali e lievi speziature.

L’antico metodo prevedeva una vinificazione in botti di rovere, spesso usate anche per il Montepulciano, e un affinamento minimo. Oggi le tecniche si sono affinate: si prediligono acciaio e temperature controllate per esaltare l’espressività del frutto e la vivacità gustativa. Il risultato è un vino che mantiene la memoria del passato ma guarda con decisione alla modernità.

La provincia di Pescara, le colline teatine, i pendii che si affacciano sulla costa o che si inoltrano verso i rilievi interni: qui le vigne trovano un microclima ideale. Le forti escursioni termiche tra giorno e notte, tipiche dell’entroterra abruzzese, contribuiscono allo sviluppo degli aromi nel Montepulciano, che qui viene vendemmiato prima della completa maturazione per mantenere freschezza e acidità.

Sono numerosi i produttori che hanno investito nella valorizzazione del Cerasuolo, elevandolo da “vino da osteria” a protagonista delle tavole più raffinate. Tra questi, si distinguono aziende come Valentini, con un approccio artigianale quasi mistico, e Tiberio, che abbina rigore tecnico e rispetto per il terroir. Ma il vero patrimonio del Cerasuolo è la rete diffusa di piccole cantine a conduzione familiare che mantengono vivo lo spirito agricolo del vino.

Il Cerasuolo è un vino gastronomico per eccellenza. Si abbina perfettamente ai piatti della tradizione abruzzese, come il brodetto di pesce, le scrippelle ‘mbusse o gli arrosticini di castrato. La sua struttura gli consente di reggere anche preparazioni saporite, mentre l’acidità bilancia pietanze grasse o speziate.

Ma se c’è una preparazione che sposa l’anima del Cerasuolo, è la “pasta alla mugnaia con ragù bianco d’agnello”. Si tratta di un piatto rustico e raffinato insieme, radicato nella cucina della Val Fino, dove la farina e l’acqua si trasformano in una sfoglia lunga e spessa, da condire con un ragù che esalta la carne senza coprirla con sughi invadenti.

Ricetta: Pasta alla Mugnaia con Ragù Bianco d’Agnello

Ingredienti per 4 persone:

Per la pasta:

  • 400 g di farina di semola rimacinata

  • 200 ml di acqua tiepida

  • Un pizzico di sale

Per il ragù:

  • 400 g di polpa d’agnello disossata, tagliata a coltello

  • 1 cipolla bianca

  • 1 carota

  • 1 costa di sedano

  • 1 rametto di rosmarino

  • 1 foglia d’alloro

  • Vino bianco secco q.b.

  • Olio extravergine d’oliva

  • Sale e pepe nero macinato fresco

Preparazione

  1. Impasto:
    In una spianatoia, formare una fontana con la farina e aggiungere gradualmente l’acqua, incorporando con una forchetta. Impastare energicamente per almeno 10 minuti fino a ottenere un composto liscio ed elastico. Lasciar riposare coperto per 30 minuti.

  2. Formatura:
    Dividere l’impasto in 4 parti. Con i palmi, allungare ogni pezzo in un unico spaghetto spesso, di circa mezzo centimetro di diametro. Arrotolare su sé stesso per creare le spirali tipiche della mugnaia.

  3. Ragù:
    In un tegame largo, rosolare la cipolla tritata finemente con sedano e carota in olio EVO. Aggiungere l’agnello, farlo dorare bene su tutti i lati, sfumare con vino bianco e aggiungere il rosmarino e l’alloro. Cuocere lentamente a fuoco basso per circa 45 minuti, aggiungendo un po’ di acqua se necessario. Regolare di sale e pepe.

  4. Cottura della pasta:
    Cuocere la mugnaia in abbondante acqua salata per circa 4–5 minuti. Scolare e saltare nel tegame con il ragù, amalgamando bene.

  5. Servizio:
    Impiattare con un filo d’olio a crudo e, per chi gradisce, una grattugiata leggera di pecorino stagionato.

Versare un calice di Cerasuolo d’Abruzzo mentre si gusta la pasta alla mugnaia non è solo un gesto conviviale: è un rito. È un modo per onorare la continuità tra ciò che siamo stati e ciò che possiamo diventare, attraverso una bottiglia che racchiude storia, tecnica, dedizione e territorio.

In un’epoca in cui il vino rosato ha spesso assunto connotazioni da aperitivo estivo o da proposta leggera per palati distratti, il Cerasuolo impone un altro paradigma. È un vino che parla, che racconta il tempo, che resiste all’omologazione e che, per chi lo sa ascoltare, dice molto di più di quanto ci si aspetti.

Se la cucina italiana è un racconto di identità, allora il Cerasuolo è la sua voce in dialetto: diretta, profonda, sincera. Un invito alla riscoperta.


giovedì 28 marzo 2024

Special Gilmet: Il Rito Liquido del Sud che Rinfresca e Racconta

Ci sono bevande che nascono per caso e altre che sembrano scritte nel DNA di un luogo. Il Special Gilmet, fresco come una brezza d’estate e pungente quanto basta per imprimersi nella memoria, appartiene a questa seconda categoria. Non si tratta di un prodotto industriale, ma di una preparazione artigianale tramandata oralmente nei circoli marinari della costa calabrese, tra un tramonto sulle banchine e una risata sotto il pergolato.

Il nome, “Gilmet”, pare derivi da una storpiatura fonetica di “gin-mint”, a sottolineare due dei protagonisti essenziali di questa bevanda: il distillato botanico per eccellenza e la menta fresca, onnipresente nei cortili assolati delle case di campagna e nei giardini affacciati sul mare. Ma col tempo, il Special Gilmet ha acquisito una sua identità ben distinta, lontana dai cocktail da manuale e più vicina a una sorta di elisir della convivialità mediterranea.

Non è raro che venga offerto come aperitivo in quelle taverne a pochi metri dal porto, servito in bicchieri bassi e spessi, talvolta con una scorzetta di limone calabrese immersa nel ghiaccio. La sua preparazione non segue dogmi, ma riti. Ogni famiglia, ogni bar storico, ogni anziano appassionato di mixologia improvvisata, custodisce la “propria” versione. C’è chi lo ama più dolce, chi preferisce accentuarne l’amaro, chi aggiunge una punta di anice per un finale aromatico più persistente. Ma tutti concordano su un punto: il Special Gilmet è molto più di una bevanda. È un gesto, un momento, una pausa dal tempo.

Per avvicinarsi alla preparazione tradizionale del Special Gilmet, è bene partire da una versione codificata, pur lasciando spazio alla personalizzazione.

Per un bicchiere (doppia dose):

  • 50 ml di gin secco (meglio se artigianale, con botaniche mediterranee)

  • 20 ml di vermouth bianco secco

  • 10 ml di liquore alla menta naturale

  • 1 cucchiaino di zucchero di canna grezzo

  • succo fresco di mezzo lime

  • 1 rametto di menta calabrese (oppure menta romana, se più facilmente reperibile)

  • scorza di limone bio

  • ghiaccio a cubetti (abbondante)

Strumenti:

  • shaker in acciaio

  • muddler (pestello da cocktail)

  • jigger (misurino)

  • bicchiere old fashioned

  • strainer (colino da cocktail)

Preparazione passo per passo

1. L’infusione aromatica:
Nel fondo dello shaker, pestare delicatamente il rametto di menta con lo zucchero di canna e il succo di lime. L’obiettivo non è distruggere le foglie, ma liberare gli oli essenziali senza renderle amare. Questo passaggio è fondamentale: crea la base aromatica che farà da spina dorsale al drink.

2. L’unione degli spiriti:
Aggiungere il gin, il vermouth e il liquore alla menta. Riempire lo shaker con ghiaccio e agitare vigorosamente per almeno 15 secondi. Il movimento deve essere fluido ma deciso, come a voler “svegliare” gli aromi e farli danzare tra loro.

3. Il servizio:
Filtrare con lo strainer in un bicchiere old fashioned precedentemente raffreddato. Aggiungere due cubetti di ghiaccio nuovi, una scorza di limone leggermente pressata sopra il bicchiere per rilasciare gli oli, e – se si desidera – una fogliolina di menta come guarnizione.

4. Il momento del sorso:
Il Special Gilmet va assaporato lentamente, come si fa con le chiacchiere d’estate. È un sorso fresco e profondo, capace di sorprendere anche i palati più esperti grazie alla complessità dei suoi contrasti: la dolcezza del vermouth e della menta si sposa con la secchezza del gin e l’acidità vivace del lime, mentre la scorza di limone regala un finale elegante, quasi balsamico.

Secondo alcune testimonianze raccolte negli anni '70 da un etnografo francese che esplorava le coste calabresi in cerca di pratiche alimentari arcaiche, il Special Gilmet sarebbe stato originariamente preparato con un distillato locale di ginepro prodotto nei conventi montani, miscelato con infusi di menta raccolta nei boschi e limoni conservati sotto sale. Col tempo, le influenze britanniche (e le bottiglie di gin importate dai porti di Napoli e Palermo) hanno modificato la base alcolica, rendendo il cocktail più cosmopolita ma senza intaccarne lo spirito rurale.

In alcune famiglie del cosentino, ancora oggi, viene preparato nelle feste patronali e servito con un piattino di fichi freschi o mandorle tostate. Nelle versioni più moderne, si trovano anche varianti con l’aggiunta di cetriolo fresco, basilico o addirittura qualche goccia di acqua di fiori d’arancio, per un tocco floreale che riequilibra la parte erbacea.

Il Special Gilmet si presta perfettamente come aperitivo, specie in abbinamento a stuzzichini freschi e dal profilo salino. Ottimo con:

  • acciughe marinate al limone

  • olive nere cotte al forno

  • crostini con crema di capperi e pomodori secchi

  • formaggi freschi a pasta molle con miele d’eucalipto

Può anche diventare il drink ideale per un brunch estivo, servito con una fetta di torta salata alle erbe spontanee e un’insalata di farro con agrumi e menta.

Il Special Gilmet è un piccolo grande segreto della tradizione liquida del sud Italia. È una bevanda che incarna l’arte di vivere lentamente, valorizzando ciò che la natura offre e quello che il tempo insegna. Prepararlo non è solo un esercizio di mixologia, ma un modo per rievocare storie, profumi e atmosfere. È l’aperitivo perfetto per chi cerca autenticità e bellezza in un solo bicchiere.



mercoledì 27 marzo 2024

Armagnac: L’Anima Liquida della Guascogna tra Storia, Alambicchi e Tradizione

Ci sono distillati che conquistano il mondo con la forza del marketing, e altri che seducono con il mistero della discrezione. L’Armagnac appartiene alla seconda categoria. Fratello più antico del cognac, ma spesso meno celebrato, questo distillato francese è un raffinato ambasciatore della Guascogna, regione fiera e rurale nel cuore sud-occidentale della Francia.

Con un passato che affonda le radici nel Medioevo, l’Armagnac è una bevanda densa di memoria. Si presenta con una tessitura profonda, aromi complessi e una personalità forgiata dal tempo e dal legno. A differenza di molti spiriti moderni, non cerca di compiacere subito: si svela lentamente, come i paesaggi ondulati tra i Pirenei e i vigneti del Gers.

Questo post è pensato per chi vuole andare oltre le mode, per chi cerca autenticità e profondità nel bicchiere. Esploreremo le origini dell’Armagnac, il suo metodo di produzione unico, le sue caratteristiche sensoriali e, infine, una ricetta tradizionale per impiegarlo in cucina. Un viaggio tra aromi di prugna secca, legno tostato e terra antica.

Il primo documento scritto che cita l’Armagnac risale al 1310, quando un vescovo locale, Vital Dufour, elenca i “benefici della vita” in un trattato che menziona una bevanda distillata capace di “preservare la giovinezza, risvegliare l’intelligenza e curare le malattie”.

È l’inizio di una lunga e affascinante avventura. L’Armagnac nasce dall’incontro tra il vino prodotto nei territori della Guascogna e le tecniche di distillazione introdotte dagli arabi nel bacino del Mediterraneo. Già nel XIV secolo, si ottenevano spiriti a base di uva destinati principalmente a usi medicinali. Solo più tardi, nel XV e XVI secolo, la bevanda inizia a diffondersi come piacere della tavola.

A differenza del cognac, che si afferma come prodotto industriale per l’esportazione, l’Armagnac rimane per secoli un distillato “di campagna”, prodotto in piccole quantità, spesso in modo itinerante, grazie ai famosi alambicchi ambulanti che percorrono i villaggi durante la stagione della distillazione. Ancora oggi, molte aziende familiari seguono questo metodo artigianale.

Il territorio dell’Armagnac si divide in tre sottozone ufficiali:

  • Bas-Armagnac, la più rinomata, con terreni sabbiosi e distillati eleganti e fruttati;

  • Armagnac-Ténarèze, più argillosa, dove si producono distillati robusti e strutturati;

  • Haut-Armagnac, la più vasta ma meno coltivata, con produzione limitata e selezionata.

Queste aree non rappresentano solo denominazioni geografiche: riflettono microclimi, tradizioni, e approcci differenti alla viticoltura e alla distillazione. Il vitigno più utilizzato è l’Ugni Blanc, seguito da Baco 22A, Folle Blanche e Colombard, ognuno con un profilo aromatico distinto.

A rendere l’Armagnac un distillato d’eccezione è il suo metodo di distillazione. A differenza del cognac, che viene distillato due volte in alambicchi a ripasso, l’Armagnac si ottiene quasi sempre tramite una distillazione singola continua in un alambicco di rame appositamente progettato (l’alambicco armagnacais).

Questo tipo di distillazione, più delicato e a bassa temperatura, permette di preservare una gamma molto ampia di componenti aromatici: frutta matura, spezie dolci, fiori secchi. L’Armagnac esce dall’alambicco con un tenore alcolico inferiore rispetto ad altri distillati, intorno ai 52-60 gradi, e conserva quindi una maggiore impronta del vino originario.

Segue l’invecchiamento, sempre in botti di rovere (solitamente locale, della foresta di Monlezun). Il legno gioca un ruolo fondamentale, conferendo al distillato struttura, complessità e quella tonalità ambrata che vira verso il rame con il passare degli anni.

Un Armagnac giovane può esprimere note di frutta fresca, mela, pera, fiori bianchi. Dopo pochi anni, compaiono la prugna secca, l’uva passa, la vaniglia e i primi sentori legnosi. Gli invecchiamenti lunghi (oltre i 20 anni) sviluppano aromi più profondi: cera d’api, tabacco, cuoio, cacao, tè nero.

In bocca, l’Armagnac si distingue per un attacco deciso ma equilibrato, una progressione avvolgente e un finale lungo, spesso segnato da note speziate. Non esistono due Armagnac identici: ogni produttore, ogni annata, ogni bottiglia racconta una storia diversa.

L’Armagnac si apprezza a temperatura ambiente, servito in bicchieri a tulipano che concentrano gli aromi. Evitare i balloon troppo larghi, che disperdono i profumi.

Si consiglia di degustarlo dopo cena, da solo, o in abbinamento a cioccolato fondente, frutta secca o formaggi stagionati. Alcuni intenditori lo preferiscono leggermente intiepidito, tenendo il bicchiere tra le mani per sprigionarne le sfumature.

Negli ultimi anni, alcuni mixologist hanno riscoperto l’Armagnac anche in miscelazione, utilizzandolo come base nobile per reinterpretare grandi classici come il Sazerac o il Sidecar.


Ricetta: Filetto di anatra all’Armagnac e prugne

Un classico della cucina guascone, perfetto per esaltare l’aromaticità del distillato in un piatto conviviale.

Ingredienti per 4 persone:

  • 2 petti d’anatra (circa 600 g)

  • 150 g di prugne secche denocciolate

  • 150 ml di Armagnac

  • 1 bicchiere di fondo bruno (o brodo di carne)

  • 2 cucchiai di miele di castagno

  • 1 rametto di timo fresco

  • Sale e pepe nero q.b.

Preparazione:

  1. Marinatura:
    Metti le prugne in ammollo con metà dell’Armagnac per almeno 1 ora.

  2. Cottura della carne:
    Incidi la pelle dei petti d’anatra con un coltello affilato, senza intaccare la carne. Scalda una padella senza grassi e cuoci i petti dalla parte della pelle per 6-7 minuti, fino a doratura. Gira e cuoci altri 3-4 minuti. Tieni in caldo.

  3. Salsa:
    Nella stessa padella, sfuma con l’Armagnac restante. Aggiungi il miele, le prugne con il liquido della marinatura, il fondo bruno e il timo. Lascia ridurre fino a ottenere una salsa lucida e profumata. Regola di sale e pepe.

  4. Servizio:
    Affetta i petti d’anatra, disponili nei piatti e nappali con la salsa. Accompagna con patate arrosto o purè di sedano rapa.

Oltre al classico abbinamento con la carne — in particolare con l’anatra, il fagiano, il coniglio o i fegatini — l’Armagnac rivela la sua versatilità anche in preparazioni dolci. Non è raro trovarlo nelle cucine della Guascogna come ingrediente per crêpes flambées, sablés al burro salato, oppure per aromatizzare creme e ganache al cioccolato fondente.

Un dessert tradizionale che ne esalta l’intensità è la tarte aux pruneaux à l’Armagnac, dove le prugne secche vengono fatte rinvenire nel distillato e poi adagiate su una crema frangipane profumata, in un abbraccio tra morbidezza, acidità e calore.

In pasticceria, l’Armagnac è meno aggressivo rispetto ad altri spiriti ad alta gradazione: il suo profilo rotondo e fruttato si presta bene a impasti lievitati, mousse, semifreddi e riduzioni per crostate rustiche. Persino alcune gelaterie artigianali francesi ne propongono una versione “adulta” come gusto estivo, accostandolo a fichi caramellati o noci Périgord.

Uno degli aspetti più affascinanti dell’Armagnac è la sua intima relazione con il tempo. È una bevanda che non ammette scorciatoie: ogni fase, dalla vendemmia all’invecchiamento, richiede pazienza e dedizione. Ci sono botti di Armagnac che riposano per decenni prima di essere imbottigliate, custodendo in silenzio la storia di una famiglia, di un'annata, di una stagione climatica unica.

Molti produttori propongono le cosiddette "vintage", ovvero bottiglie millesimate che riportano sull’etichetta l’anno esatto della distillazione. Acquistare un Armagnac millesimato è come possedere un piccolo pezzo di tempo liquido: si presta a regali commemorativi, celebrazioni importanti, o semplicemente alla costruzione di una propria memoria gustativa.

In un'epoca segnata dal consumo veloce e dalla disponibilità immediata, l’Armagnac rappresenta l’opposto: un invito alla riflessione, all’ascolto del silenzio, alla consapevolezza di ciò che scorre, dentro e fuori dal bicchiere.

Negli ultimi anni, l’Armagnac sta vivendo una rinascita, seppur silenziosa. Giovani produttori, enologi appassionati e distillatori indipendenti stanno ridando nuova linfa a questo distillato con approcci sostenibili, micro-produzioni biologiche, e una maggiore attenzione all’espressività territoriale.

I sommelier lo riscoprono come digestivo nobile, i bartender lo reinterpretano nei cocktail d’autore, e persino i collezionisti iniziano a valorizzarlo per la sua rarità e autenticità. Non si tratta solo di una riscoperta commerciale, ma di una vera e propria riconsacrazione culturale.

Molti château, piccoli e medi, aprono oggi le porte ai visitatori curiosi: degustazioni guidate tra le botti, passeggiate tra i filari, cene a tema dove ogni portata è pensata per valorizzare una tipologia di Armagnac. Un turismo lento e consapevole che coinvolge i sensi e la mente.

In un mondo in cui tutto tende alla semplificazione, cosa succede se scegliamo un liquido complesso, nato in silenzio e maturato nel legno per anni, talvolta per decenni?

L’Armagnac non cerca approvazione. Non è stato creato per affascinare al primo sorso, né per brillare nei riflettori. È una bevanda che chiede ascolto, attenzione, tempo. Ma chi sa concedergli il giusto spazio, scoprirà un universo profondo, intimo, antico.

Allora, forse, la vera domanda è: siamo ancora capaci di attendere?

 
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