lunedì 21 febbraio 2022

Vino

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Il vino è una bevanda idro alcolica, ottenuta dalla fermentazione (totale o parziale) del frutto della vite, l'uva (sia essa pigiata o meno), o del mosto.

Generalità

Il vino si può ottenere anche da uve appartenenti ad incroci della Vitis vinifera con altre specie del genere Vitis (ad esempio la Vitis labrusca o la Vitis rupestris) e da uve di specie di Vitis diverse (quale la Vitis chunganensis).
In Italia (ed in tutta l'Unione europea), per proteggere un prodotto di maggiore qualità, prezzo e valore, non si può commercialmente chiamare "vino" il prodotto di fermentazione di uve che non siano Vitis vinifera. Quindi il termine, in caso di commercializzazione di fermentati diversi, deve essere omesso. Sistema comune per ovviare a tale divieto è, ad esempio, quello di citare semplicemente il nome della varietà di uva usata, ovviamente senza citare il termine "vino".
Con tale bevanda si può dar vita anche ad un distillato che, se invecchiato per almeno 12 mesi in legno, prende il nome di brandy. La qualità e diversità tra vini dipendono strettamente dal vitigno, dal clima, dal terreno, dall'esposizione di questo rispetto alla radiazione solare e dalla coltivazione più o meno accurata della vite stessa.

Etimologia

Vino deriva direttamente dal latino vīnum, da un tema mediterraneo da cui deriva anche il greco antico ϝοῖνος woînos, classico οἶνος oînos, l'ebraico יין yayin e l'armeno գինի gini. La parola latina è stata prestata all'umbro, all'osco, al falisco vinu, all'etrusco vin(um), al leponzio vinom; in epoca più recente, vīnum è stato prestato alle lingue celtiche, alle lingue germaniche e da queste al finlandese viini. Anche i termini slavi per vino è probabile che siano prestiti latini. L'ipotesi che vīnum abbia un'origine indoeuropea, comune all'ittita wiyan, ha oggi poco credito.

Storia del vino

Nel Valdarno Superiore sono stati ritrovati in depositi di lignite, reperti fossili di tralci di vite (Vitis vinifera) risalenti a 2 milioni di anni fa. Diversi ritrovamenti archeologici dimostrano che la Vitis vinifera cresceva spontanea già 300.000 anni fa. Studi recenti tendono ad associare i primi degustatori di tale bevanda già al neolitico; si pensa che la scoperta fu casuale e dovuta a fermentazione naturale avvenuta in contenitori dove gli uomini riponevano l'uva. Le più antiche tracce di coltivazione della vite sono state rinvenute sulle rive del Mar Caspio e nella Turchia orientale. Nel 2010 in Sicilia presso i complessi sotterranei del monte Kronio (Sciacca) e nello scavo Sant’Ippolito di Caltagirone sono stati scoperti i residui legati del processo di vinificazione di vino in una giara dell'Età del Rame, collocate all’inizio del IV millennio a.C. e rappresentano le testimonianze più antiche d'Europa.
Nel corso del XX secolo gli archeologi si sono imbattuti casualmente nella più antica giara di vino mai rinvenuta. Nel 1996, infatti, una missione archeologica statunitense, proveniente dall'Università della Pennsylvania e diretta da Mary Voigt, ha scoperto nel villaggio neolitico di Hajji Firuz Tepe, nella parte settentrionale dell'Iran, una giara di terracotta, della capacità di 9 litri, contenente una sostanza secca proveniente da grappoli d'uva. La notizia, riferita da Corriere Scienza del 15 ottobre 2002, aggiunge che i reperti rinvenuti risalgono al 5100 a.C., quindi a 7000 anni fa, ma gli specialisti affermano che il vino è stato prodotto per la prima volta, forse casualmente, tra 9 e 10000 anni fa nella zona del Caucaso. Sembra infatti che il primo vino sia stato prodotto del tutto per caso (come è avvenuto per il pane lievitato) per la fermentazione accidentale di uva dimenticata in un recipiente.
È comunque accertato che la produzione su larga scala di vino è iniziata tra il 4100 e il 4000 a.C. datazione inerente ai ritrovamenti della prima casa vinicola trovata nel complesso delle caverne del comune armeno di Areni.
I primi documenti riguardanti la coltivazione della vite risalgono al 1700 a.C., ma è solo con la civiltà egizia che si ha lo sviluppo delle coltivazioni e di conseguenza la produzione del vino.
La Bibbia (Genesi 9,20-27) attribuisce la scoperta del processo di lavorazione del vino a Noè: successivamente al Diluvio Universale, avrebbe piantato una vigna con il cui frutto fece del vino che bevve fino ad ubriacarsi. Il cristianesimo vede nel vino un simbolo del sangue di Gesù Cristo, che nel corso dell'ultima Cena egli definì "per la nuova ed eterna alleanza, versato per molti in remissione dei peccati". Il cattolicesimo, in particolare, considera il vino la specie sotto cui, nel sacramento dell'Eucaristia, sarebbe realmente presente il sangue di Gesù Cristo.
Sotto l'Impero romano ci fu un ulteriore impulso alla produzione del vino, che passò dall'essere un prodotto elitario a divenire una bevanda di uso quotidiano. In questo periodo le colture della vite si diffusero su gran parte del territorio (in particolare in Italia, Gallia Narbonensis, Hispania, Acaia e Siria), e con l'aumentare della produzione crebbero anche i consumi.
Ad ogni modo il vino prodotto a quei tempi nell'area del Mediterraneo era molto differente dalla bevanda che conosciamo oggi: a causa delle tecniche di vinificazione e conservazione (soprattutto la bollitura), il vino risultava essere una sostanza sciropposa, molto dolce e molto alcolica. Era quindi necessario allungarlo con acqua e aggiungere miele e spezie per ottenere un sapore più gradevole.
Diversamente, i popoli celtici già prima del contatto con la romanità producevano vini leggeri e dissetanti e li conservavano in botti di legno invece che nelle giare.
Con il crollo dell'Impero Romano la viticoltura entra in una crisi dalla quale uscirà solo nel medioevo, grazie soprattutto all'impulso dato dai monaci benedettini e cistercensi. Nella stessa Regola, Benedetto afferma:
«Ben si legge che il vino ai monaci assolutamente non conviene; pure perché ai nostri tempi è difficile che i monaci ne siano persuasi, anche a ciò consentiamo, in modo però che non si beva fino alla sazietà.»
Gian Battista Vico intravide nella concezione medioevale del vino come genere di prima necessità un carattere della barbarie di quest'epoca.
Proprio nel corso del medioevo nasceranno tutte quelle tecniche di coltivazione e produzione che arriveranno praticamente immutate fino al XVIII secolo, quando ormai la produzione ha carattere "moderno". Ciò grazie alla stabilizzazione della qualità e del gusto dei vini, nonché all'introduzione delle bottiglie di vetro e dei tappi di sughero.
Nel XIX secolo l'oidio e la fillossera, malattie della vite provenienti dall'America, distruggono enormi quantità di vigneti. I coltivatori sono costretti a innestare i vitigni sopravvissuti sopra viti di origine americana (Vitis labrusca), resistenti a questi parassiti, e ad utilizzare regolarmente prodotti fitosanitari come lo zolfo.
Nel Novecento invece si ha, inizialmente da parte della Francia, l'introduzione di normative che vanno a regolamentare la produzione (origine controllata, definizione dei territori di produzione, ecc.) che porteranno a un incremento qualitativo nella produzione del vino a scapito della quantità.

Enologia

L'enologia è lo studio del vino in generale. Essa si occupa della viticoltura, della vinificazione, dell'affinamento (compresa la conservazione in cantina) e della degustazione.
Il nome deriva dal greco oinos (vino) e logos (studio).

Composizione chimica del vino

Dal punto di vista chimico, il vino è una miscela liquida costituita principalmente da acqua e alcol etilico (anche detto "etanolo").
Oltre a tali componenti, il vino contiene tantissime altre sostanze, alcune delle quali sono desiderate, in quanto danno un sapore gradevole al vino oppure hanno un effetto positivo sulla salute (ad esempio i polifenoli e le antocianine), mentre altre sostanze sono indesiderate, in quanto danno un sapore sgradevole al vino oppure hanno un effetto negativo sulla salute (ad esempio l'anidride solforosa, la cui concentrazione massima è fissata per legge, essendo altamente tossica).
La tabella seguente riporta i valori tipici di concentrazione dei principali componenti del vino:
Componente Formula chimica  % in volume  % in peso  % in moli Note Fonte
Acqua H2O 70-90 82-85,4 92,6-94,1 È il componente del vino a maggiore concentrazione

Alcol etilico C2H5OH 9-16 6,9-11,7 2,9-5,1 È prodotto durante la fermentazione alcolica degli zuccheri presenti nell'uva. La sua percentuale in volume corrisponde alla gradazione alcolica

Acetaldeide CH3CHO 0,5-30 0,37-18,1 0,17-9,1 È un prodotto secondario della fermentazione alcolica
Glicerolo C3H8O3 0,32-1,19 0,37-1,38 0,08-0,3 È un prodotto secondario della fermentazione alcolica. La sua concentrazione aumenta all'aumentare della gradazione alcolica

Acido tartarico C4H6O6 0,17-0,45 0,28-0,73 0,02-0,1 Presente nell'uva

Acido lattico C3H6O3 0,08-0,33 0,09-0,37 0,02-0,08 Prodotto dalla fermentazione malolattica

Acido malico HOOCCH(OH)CH2COOH 0-0,44 0-0,64 0-0,1 Presente nell'uva

Altri componenti del vino sono:
  • alcol metilico: particolarmente tossico; si forma dall'azione degli enzimi sulle pectine contenute nella buccia dell'uva;
  • alcoli superiori (cioè con atomi di carbonio superiori a 2);
  • butilenglicole e acido succinico: prodotti secondari della fermentazione alcolica;
  • acido acetico: prodotto secondario della fermentazione alcolica; la sua concentrazione può essere elevata se non si effettua un'adeguata pulizia dei contenitori utilizzati per la produzione del vino;
  • zuccheri: alcuni fermentano per dare alcol (fruttosio, glucosio) per cui è presente solo una frazione di essi che non ha completato la fermentazione, mentre altri non vanno incontro a fermentazione (arabinosio e xilosio); talvolta si aggiunge saccarosio al vino durante la sua produzione, ma tale zucchero non è presente nel prodotto finale in quanto reagisce velocemente;
  • acido citrico: è un acido organico presente nell'uva;
  • composti azotati e sali minerali: già presenti nell'uva;
  • composti fenolici: in parte sono presenti nell'uva e in parte sono ceduti dal legno della botte durante l'invecchiamento;
  • composti aromatici: possono essere già presenti nell'uva o formarsi durante il processo di produzione e invecchiamento del vino;
  • vitamine: sono presenti nell'uva; nel vino non è presente la vitamina C, in quanto viene consumata durante il processo di vinificazione;
  • anidride carbonica: prodotta durante la fermentazione alcolica; ha una concentrazione minore nei vini invecchiati;
  • ossigeno: assorbito dal vino durante il processo produttivo;
  • anidride solforosa: è particolarmente tossica; viene addizionata in piccole percentuali per regolare la fermentazione e come conservante.

Classificazione dei vini

Generalità

I vini possono essere classificati in funzione di diversi aspetti. Di seguito i principali.
  • nazione e, in subordine, regione/zona di provenienza;
  • denominazione di origine o indicazione geografica di appartenenza. Si tratta della categoria di differenziazione principale. Un vino (nazionale, europeo, extra europeo che è il caso più frequente) può essere anche "generico" ovvero senza denominazione di origine o indicazione geografica;
  • tipologia (fermo, frizzante, spumante, passito, liquoroso, novello, e, in subordine, bianco, rosso, rosato);
  • annata
  • vitigno (varietà di vite utilizzata per la produzione) da cui provengono le uve o meglio uvaggio visto che le varietà utilizzate possono essere diverse. I vitigni più famosi e diffusi nel mondo (i cosiddetti "Vitigni internazionali" o "Alloctoni") sono fra i rossi il Cabernet-sauvignon, il Cabernet franc, il Merlot, il Pinot noir, lo Zinfandel e il Syrah; tra i bianchi il Sauvignon, lo Chardonnay, il Muscat ed il Riesling;
  • fascia di prezzo;
  • produttore (cioè la cantina vinicola che ha prodotto il vino) oppure (quando non coincidono) imbottigliatore; nei casi di vini stranieri (specialmente extra UE) in etichetta compare anche l'importatore oppure il distributore (nei casi di vini UE);
  • certificazione (es. vino biologico);
  • macro classificazione organolettica (giovane/maturo, beverino/impegnativo, leggero/potente, secco/amabile, fruttato/evoluto e tante altre).
Altri fattori (più tecnici) possono essere: punteggio assegnato dalle guide, piatto/preparazione da abbinare, gradazione alcolica, caratteristiche sensoriali, ecc. Sempre più importante ormai è anche la classificazione del vino dal punto della metodologia produttiva (si veda sotto): convenzionale, biologico, biodinamico, naturale, vegano.

Classificazione per tipologia

I vini si differenziano tra loro per il sistema di vinificazione (vini normali e speciali) e per le proprietà organolettiche: colore, profumo, gusto e retrogusto; altri parametri concorrono a definire le caratteristiche di un vino: alcol, acidità, sapidità, sensazione di astringenza (dovuta ai tannini). I vini possono essere differenziati in vini tranquilli (detti anche "fermi"), vini frizzanti e spumanti, a seconda del fatto che siano in grado o meno di sprigionare anidride carbonica all'apertura delle bottiglie. Costituisce ulteriore distinzione il contenuto in zuccheri non fermentati del vino (secco, semisecco, dolce...)
Inoltre ogni vino è caratterizzato da una temperatura di servizio (temperatura ideale per la consumazione) e da abbinamenti ottimali con determinate pietanze.

Vini ordinari

Si intendono per vini ordinari quei vini immessi al consumo dopo aver subito il solo processo di vinificazione (quindi senza interventi tecnici successivi o aggiunte di altri componenti).
Vino bianco
Il vino bianco viene prodotto con la tecnica della spremitura soffice dell'acino d'uva bianca, in modo da spremerne il succo ed eliminare quindi le bucce. Può essere anche prodotto da uva a bacca nera (ad esempio pinot noir) separando da subito le bucce dal succo, al contrario del processo di vinificazione in rosso, che prevede la macerazione anche delle bucce per estrarne il colore ed i contenuti. Si presenta all'aspetto di colore giallo in varie tonalità (dal verdolino all'ambrato, passando per il paglierino e il dorato); è generalmente caratterizzato da profumi floreali e fruttati e va consumato ad una temperatura di servizio compresa fra 8 °C e 14 °C; al gusto prevalgono le sensazioni di freschezza e acidità, anche se con l'aumentare della temperatura di servizio potrebbero presentarsi sgradevoli sensazioni di amaro. Gli accoppiamenti ottimali sono con le pietanze a base di pesce, molluschi, crostacei, verdure e carni bianche, ed in generale con piatti di cottura rapida e sughi poco strutturati.

Vino rosato
Il vino rosato si produce utilizzando uve rosse spremute in modo soffice come per il vino bianco ed un veloce contatto con le bucce, da 2 ore fino massimo 36. In questo modo le bucce cedono solo parte del colore al mosto. In alternativa si può usare il metodo del salasso, che consiste nel togliere parte del mosto durante la vinificazione in rosso (quindi in presenza delle bucce), così da ottenere un vino di colore rosato. È del tutto vietato produrre vini rosati mescolando vino bianco e vino rosso. L'unica eccezione è l'assemblaggio per ottenere spumante di colore rosato. Si presenta all'aspetto di colore tra il rosa tenue, il cerasuolo e il chiaretto; è generalmente caratterizzato da profumi fruttati, e va consumato ad una temperatura di servizio compresa fra 10 °C e 14 °C; al gusto prevalgono le sensazioni di leggera acidità, di aromaticità e di lieve corposità. Gli accoppiamenti ottimali sono con pietanze gustose a base di pesce, paste asciutte con sughi delicati, salumi leggeri. Quando si parla di spumante il termine più consueto è rosé invece di rosato.

Vino rosso
Il vino rosso si presenta all'aspetto di colore rosso in varie tonalità (dal porpora al rubino fino al granato e all'aranciato), e viene prodotto dal mosto fatto macerare sulle bucce, così da estrarre polifenoli e le sostanze coloranti naturalmente presenti su di esse. È generalmente caratterizzato da un'ampia varietà di profumi (fiori, frutta, confettura, erbe, spezie) e da una più o meno elevata sensazione di morbidezza, corposità e tannicità; va consumato ad una temperatura di servizio compresa fra 14 °C e 20 °C. Gli accoppiamenti ottimali sono con le carni rosse, la cacciagione, i formaggi, e tutte le pietanze basate su cotture prolungate e sughi strutturati.

Vino novello
Il vino novello di ottiene mediante macerazione carbonica. Ha un colore intenso e forti aromi secondari o fermentativi. Non può essere immesso sul mercato prima del 30 ottobre[19] (nel recente passato era il 6 novembre) di ogni anno e se ne consiglia un consumo nei primi sei mesi perché poco stabile. Un accoppiamento ottimale e tipico del vino novello è con le castagne, e conseguentemente con gli alimenti a base di farina di castagne, come necci e castagnaccio.

Vino passito
Ottenuto da uve appassite lavorate come per una normale vinificazione. L'appassimento può avvenire in maniera naturale sulla pianta (eseguendo dunque la vendemmia tardivamente) oppure artificialmente ponendo l'uva su dei graticci sui quali viene insufflata aria calda, oppure per effetto della cosiddetta muffa nobile, ovvero la Botrytis cinerea, che attacca gli acini formando una coltre superficiale che fa evaporare l'acqua contenuta nell'acino, aumentando così la concentrazione degli zuccheri.

Vin ruspo
Viene fatto con una miscela di vino di Carmignano DOCG attraverso una fermentazione breve la quale toglie leggermente il colore rosso delle bucce di uva. Viene spesso confuso dai non addetti con il vino rosé, o rosato, e come questo si serve a temperature dell'ordine dei 10 °C 14 °C.

Vino barricato
Il vino barricato viene lasciato invecchiare in botti di legno, con particolare riferimento al legno di rovere che si ottiene dalle querce, ma anche di robinia, ciliegio ed altre essenze. Questo procedimento consente al vino di invecchiare lentamente mediante un processo di ossidoriduzione che avviene tramite le fibre lignee: esso dà al vino un aroma più intenso, un odore di tostato e al gusto sarà più equilibrato e più morbido. Il legno cede al vino i tannini idrolizzabili (che sono più morbidi di quelli condensati), polimeri delle catechine presenti nella buccia degli acini e nei vinaccioli, e sentori speziati (es. vaniglia) ed eterei che conferiranno al vino un prezioso bouquet. Le botti di rovere più prestigiose per le loro performance sono le barrique francesi di 225 litri, fabbricate esclusivamente con legni di rovere provenienti dalla foresta di Allier. Il fatto di potere contare su legni che provengono storicamente dagli stessi alberi, consente agli enologi di potere stabilire diversi parametri per l'invecchiamento dei vini. Va segnalato che è diventata prassi comune da parte di produttori vinicoli assai commerciali l'aggiungere al vino trucioli di legno per conferire al vino gusto ed aromi di legni: numerosi enologi ritengono che si tratti di una manovra posticcia che non può assolutamente dare al vino trattato le caratteristiche di un vero invecchiamento in botti di legno pregiato. Infatti si ritiene che l'effetto dei trucioli sia principalmente quello di dare al vino sentori di tostatura senza però contribuire all'evoluzione aromatica che si raggiunge grazie ai particolari equilibri ossidoriduttivi che si vengono a determinare nelle barrique. Inoltre in queste ultime sono presenti le fecce nobili le quali sono la base dell'evoluzione aromatica del vino e in parte della sua stabilizzazione. Ad ogni modo, i disciplinari e/o la legislazione riducono gli ambiti in cui è possibile utilizzare i chips enologici.
Vino frizzante
È un vino che presenta una moderata effervescenza dovuta alla presenza di anidride carbonica con una sovrappressione compresa, a temperatura ambiente, tra 1 e 2,5 bar. Sono naturali o gassificati (questi ultimi di mediocre qualità). Quelli naturali sono quasi sempre realizzati con il metodo Charmat.
I vini frizzanti non devono essere assolutamente confusi con gli spumanti che sono vini speciali (e hanno una sovrappressione maggiore): un vino frizzante può essere considerato, a livello di effervescenza e spuma, a metà strada tra un vino "tranquillo" (ovvero senza alcuna presenza di bollicine cioè un vino "fermo") e uno spumante.

Vino arancione
Il vino arancione, conosciuto anche come orange wine, è prodotto a partire da vitigni a bacca bianca con macerazione sulle bucce. Questo procedimento fa sì che il colore sia tipicamente carico e tendente all'aranciato; a seconda delle modifiche di processo, ve ne sono anche di color oro con svariate sfumature. Sono quasi sempre espressioni di produttori di vino naturale o vino biodinamico. Le possibili varianti produttive sono diverse. A parte il colore, questo particolare procedimento comporta che gli "orange wines" (detti anche "vini macerati") abbiano caratteristiche olfattive e gustative notevolmente peculiari e fuori dall'ordinario.

Vini speciali

Si intendono per vini speciali quelli che dopo il processo di vinificazione e prima di essere immessi al consumo vengono sottoposti ad ulteriori interventi tecnici o all'aggiunta di altri componenti. Questa è la differenza rilevante con i vini ordinari. Da notare che, per la legge e quindi per le trattazioni "tecniche", i vini passiti non sono speciali, come non lo sono i vini frizzanti.
I vini speciali sono:
  • Vino spumante: in seguito ad una vinificazione tradizionale come per un normale vino, viene aggiunto il cosiddetto Liquer de Tirage ovvero lieviti, monosaccaridi (zucchero di canna) e minerali, al fine di provocare una rifermentazione che può avvenire in bottiglia (Metodo classico o champenoise) o in autoclave (metodo Charmat o Martinotti)
  • Vino liquoroso
  • Vino aromatizzato

Classificazione su metodologia produttiva

Dal punto di vista delle modalità con le quali si eseguono le lavorazioni (in campagna e in cantina) ovvero in relazione al ricorso a tecniche e procedimenti per coltivare le viti, ottenere le uve e produrre il vino in termini di impatto sull'ambiente, rispetto della tradizione, aderenza a normative di settore, rispetto di disciplinari o ad attenzione a specifiche filosofie e teorie produttive, abbiamo, attualmente:
  • vini convenzionali;
  • vini biologici;
  • vini biodinamici;
  • vini naturali;
  • vini vegani.

Vino convenzionale

Il "vino convenzionale", è, di fatto, il vino che noi tutti conosciamo. Viene così gergalmente chiamato per differenziarlo dalle altre categorie (es. vino biologico). Esso rappresenta il vino ottenuto impiegando i sistemi ed i metodi attualmente consentiti dalla legge.
In Italia, la prima definizione di "vino" fu sancita con il Regio Decreto n. 2033 del 15 ottobre 1925.
Attualmente l'ordinamento italiano ed europeo sono ricche di leggi e normative che specificano, con dovizia di particolari, tutte le prescrizioni, i divieti e le definizioni per la produzione e commercializzazione del vino.
Tutte le tipologie citate in questo paragrafo sono, di fatto, un sottoinsieme di questa definizione.

Vino biologico

Il vino biologico è la definizione giuridica per tutti quei vini certificati da un organismo di certificazione terzo seguendo le normative comunitarie:
  • Reg. CE N°834/07 e Reg. CE N°889/08 per ciò che concerne principalmente la conduzione agronomica dei vigneti, ovvero la produzione di uve da agricoltura biologica certificata;
  • Reg. CE N°203/12 per ciò che concerne principalmente gli aspetti enologici e la vinificazione, ovvero la produzione di vino biologico da uve da agricoltura biologica;
Nei suddetti regolamenti e nei relativi allegati si trovano tutte le indicazioni di produzione e le limitazioni di intervento da parte del produttore. Essendo un prodotto certificato, esiste un sistema di controllo che garantisce che le disposizioni siano seguite in tutte le fasi di realizzazione del vino, dal vigneto alla bottiglia.
In sintesi le caratteristiche del vino biologico sono:
  1. le uve utilizzate provengono da agricoltura biologica certificata. Ciò implica divieti nell'utilizzo di fitofarmaci, diserbanti, pesticidi e concimanti di sintesi. Il regolamento è molto chiaro su cosa può essere utilizzato. (Es. rame & zolfo come fitofarmaci e, soprattutto, i quantitativi massimi ammissibili). In più il regolamento impone all'agricoltore anche delle pratiche volte a garantire la fertilità del fondo e l'agricoltura sostenibile (Es. sovescio, rotazione delle colture, piantumazione obbligatoria del favino, etc.)
  2. le pratiche di vinificazione avvengono secondo un disciplinare che impone divieti nell'utilizzo di coadiuvanti ed additivi. I pochi prodotti permessi devono avere, ovviamente, origine biologica certificata anch'essi ed entro limiti tracciati e ben definiti,
  3. livelli di anidride solforosa nel prodotto imbottigliato ridotti rispetto al vino "convenzionale" (attualmente 100 mg/l per i vini rossi secchi, e 150 per i vini bianchi secchi),
  4. Il produttore si sottopone ad un processo di certificazione da parte di un organismo di certificazione per ciò che concerne tutto il processo produttivo ed il vino può essere immesso sul mercato solo a fronte dell'esito positivo del processo di controllo;
  5. tutte le fasi della produzione, dal vigneto alla bottiglia, sono tracciate attraverso idonei flussi documentali;
  6. logo autorizzato da apporre nell'etichetta che riporta la certificazione del prodotto e l'organismo di certificazione che effettua i controlli.

Vino biodinamico

Non esiste, tuttora, dal punto di vista normativo, la definizione di "vino biodinamico".
Il cosiddetto vino biodinamico, o vino prodotto seguendo i dettami dell'agricoltura biodinamica, è un vino prodotto secondo la visione "cosmica" di tipo antroposofica attraverso gli insegnamenti di Rudolf Steiner.
Esiste un'associazione mondiale privata di produttori biodinamici (con sede anche in Italia), la Demeter, che verifica ed approva il prodotto apponendo il proprio marchio commerciale (vino Demeter/Biodynamic®). Viene utilizzato uno specifico disciplinare, creando di fatto una certificazione di prodotto che, per alcune fasi della produzione, si appoggia al disciplinare ed ai controlli del regolamento comunitario inerente il vino biologico. I vini biodinamici possono avere, in taluni casi, limiti ancor più severi di quelli relativi al vino biologico.
Non esistono prove verificabili scientificamente di una qualsiasi differenza chimico fisica tra vino ottenuto per vie tradizionali e con metodi biodinamici. Scientificamente è da considerarsi quindi una superstizione.

Vino naturale

Ad oggi non esiste dal punto di vista normativo e legislativo, la definizione di "vino naturale".
Il vino cosiddetto "naturale" è quello prodotto generalmente da quei piccoli vignaioli che pur aderendo a tutti i principi "naturalistici" dell'agricoltura biologica e di quella biodinamica, non vogliono aderire a regolamenti, certificazioni, ecc. In pratica, non utilizzano prodotti di sintesi o pratiche invasive, ma si sentono un po' vincolati da requisiti tecnici o filosofici di sorta.
A differenza delle altre categorie (Es. vino biologico), la filosofia del vino naturale è concepita perché il prodotto sia ottenuto non utilizzando nessuna delle sostanze ammesse in vinificazione dalle altre metodologie (a parte bassissimi quantitativi di anidride solforosa). Similmente, non sono utilizzati i comuni procedimenti chimico-fisici di cantina per il trattamento dei mosti e dei vini (ammessi per il vino biologico, e alcuni, per il biodinamico).
Chi afferma di produrre vini naturali fa spesso appello al concetto di vino del terroir come chiave per fare vino nel rispetto dei cicli della natura e, soprattutto, per favorire l'espressione e la tipicità della zona (vitigno autoctono, terreno, clima, tradizione).
Tuttavia, non esistendo una definizione giuridica di "vino naturale", né, tanto meno, una certificazione di prodotto o di processo, questa tipologia di vino rimane controversa in quanto non è dimostrabile, al consumatore, che molte delle filosofie dichiarate siano effettivamente applicate dal produttore stesso nella fase agronomica ed enologica (Es. l'utilizzo di lieviti indigeni o il non utilizzo di prodotti di sintesi). Al contrario, nel vino biologico, esistendo delle norme comunitarie di riferimento, viene applicato un protocollo di controlli effettuati da un organismo di certificazione terzo, accreditato e riconosciuto da Accredia, al quale ogni singolo produttore si sottopone, tutelando quindi, la veridicità e l'aderenza al disciplinare di fronte al consumatore.
Inoltre, ad oggi, non esistono disciplinari legalmente riconosciuti ed internazionalmente condivisi da seguire per produrre "vino naturale". Esistono, invece, delle associazioni di produttori (quelle francesi sono le più antiche e conosciute), anche nazionali, che riuniscono produttori di vini naturali e che si propongono di rispettare delle regole interne all'associazione.
Concludendo, "vino naturale" è una definizione che può essere fuorviante e che non basta ad indicare, da sola, la maggiore "naturalità" del prodotto rispetto alle altre categorie di vino (Es. vino convenzionale). La definizione generica "vino naturale", infatti, non trova alcun riscontro nelle dichiarazioni ambientali di prodotto o nella normativa comunitaria Reg. CE N°1169/11 riguardante la fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori.

Vino vegano

In questa classificazione rientrano tutti quei vini che si sono sottoposti ad un processo di verifica, effettuata da un ente terzo, atta ad indicare che tutti i processi di produzione, agronomici ed enologici, siano stati effettuati non utilizzando qualsiasi prodotto e/o attrezzatura di origine animale.
Questi vini, solitamente, hanno un mercato specifico, ovvero di tutti quei consumatori vegani che desiderano, quindi, un prodotto in assenza totale di sfruttamento animale.
Di solito, le certificazioni per questo genere di prodotto hanno come requisiti minimi:
  • il divieto di utilizzo di attrezzature di origine animale in tutte le fasi del processo. (Es. aratura del fondo con buoi)
  • il divieto assoluto di usare, in fase di vinificazione, additivi di origine animale (Es. albumina o caseina)
  • che tutti i materiali utilizzati non siano di origine animale (Es. Packaging),
  • che venga apposto in etichetta un apposito adesivo (che varia a seconda dell'ente certificatore), che sancisca le caratteristiche vegane del vino.
Sebbene non esista una definizione normativa vera e propria di vino vegano, le certificazioni appoggiano la loro validità sul seguente elenco (non esaustivo) di norme:
  • Reg.ti CE n°1829 e 1830 del 2003 in tema di alimenti e tracciabilità di OGM,
  • UNI EN ISO 22005:2008, certificazione inerente la tracciabilità della filiera produttiva,
  • Reg. CE n°1169/11 in tema di comunicazione delle informazioni sugli alimenti ai consumatori.
  • Europen Vegetarian Union, 2015, per le definizioni di "vegetariano" e "vegano", in accordo con la normativa europea di cui al punto sopra.

La conservazione del vino

Contenitori per la conservazione del vino

Altri contenitori

Questi sono i principali tipi di contenitori in cui può essere contenuto il vino:
  • Bag-in-box
  • Bag-in-Tube
  • Botte, Barrique, Piece
  • Damigiana
  • Fiasco
  • Tanica

Produzione del vino

Le zone di produzione nel mondo sono:
  • in Italia: tutte le regioni.
  • in Francia: la Gironda, tra la provincia di Bordeaux, il Lesparre-Médoc e Libourne; la Borgogna e il Beaujolais; la Champagne; l'Alsazia; la valle della Loira con la Turenna, il Berry e il nord dell'Alvernia; la valle del Rodano; il Sud-ovest (Bergerac, valle della Garonna, Béarn, Paese basco, Cahors, Aveyron) ; la Giura e la Savoia; la Mosa e la Mosella in Lorena; la Linguadoca-Rossiglione; la Provenza; la Corsica;
  • in Germania: attorno al fiume Reno; a sud-ovest di Coblenza, lungo la Mosella; lungo il Neckar vicino a Stoccarda; vicino Würzburg, lungo il Meno; la valle della Nahe; l'Assia Bergstraße;
  • in Lussemburgo: valle della Mosella;
  • in Spagna: la zona della Rioja e la Navarra; la Catalogna; la zona dello Sherry intorno a Jerez de la Frontera; la Ribera del Duero; la regione di Valencia; le isole Canarie;
  • in Portogallo: tutte le regioni, il Minho (Vinho Verde) e il Douro (Vinho do Porto); Trás-os-Montes, Beiras; Dão; Bairrada; Lisboa; Penínsola de Setúbal; Alentejo; Algarve; l'isola di Madeira e l'isola di Açores.
  • in Libano: soprattutto la Valle della Beqa';
  • negli USA: in California: le Napa, Mendocino e Sonoma valleys; più a nord tra l'Alameda e le montagne di Santa Cruz e lungo il fiume di Salinas; ma anche in Oregon, Idaho e Washington;
  • in Argentina: nelle province di Mendoza, San Juan, La Rioja, Salta, Rio Negro, Cordoba ecc;
  • in Cile;
  • nella zona del Tokaji tra Slovacchia e Ungheria;
  • in Siria: nell'Aleppo, nell'Homs e nel Damasco;
  • in Cipro;
  • in Australia: nel Victoria e in Tasmania; in alcune zone del Nuovo Galles del Sud; in Australia Meridionale (attorno ad Adelaide; lungo il fiume Margaret River e altrove;
  • in Nuova Zelanda;
  • in Sudafrica, al sud;
  • in Slovenia
  • nell'Austria orientale;
  • in Svizzera specie nel Canton Ticino, nel Vallese e nella zona del Lago Lemano;
  • nella Repubblica Ceca: la Moravia;
  • in Croazia;
  • in Grecia: in Macedonia, nel Peloponneso del sud e a Creta;
  • in Bulgaria;
  • in Albania;
  • in Georgia;
  • in Tunisia;
  • a Malta;
  • in Marocco;
  • in Turchia;
  • in Messico, soprattutto nello stato di Sonora;
  • in Brasile: in San Paolo; Santa Catarina; e nel Rio Grande do Sul;
  • nel Salto, in Uruguay;
  • in Perù: nell'Ica;
  • in Algeria: nella provincia di Orano
  • in Cina;
  • in India;
  • in Iran
  • in Giappone;
  • in Romania: nella Regione Est - Moldova, Cotnari, Regione del Sud - Craiova;
  • in Moldavia: nella Regione Centrale e Sud del paese (Orhei, Stefan Voda, Ialoveni, Hincesti, Comrat): Chateau Vartelly, Purcari, Milestii Mici, Cricova, Vitis Hincesti, Tomaj, ecc.
  • in Russia, nell'estremo sud;
  • in Israele;
  • in Canada.

I dieci principali produttori mondiali di vino

(anno 2005)
Paese migliaia di quintali
Italia 87.000 (13,14%)
Francia 67.785 (10,33%)
USA 63.275 (9,645%)
Spagna 59.258 (9,03%)
Cina 56.000 (8,53%)
Turchia 36.500 (5,56%)
Argentina 28.297 (4,31%)
Iran 28.000 (4,27%)
Cile 22.500 (3,43%)
Australia 20.265 (3,09%)
TOTALE 656.134



domenica 20 febbraio 2022

Michelada

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La Michelada o cerveza preparada è una bevanda alcolica messicana, fatta con birra, succo di lime a spezie, salse, peperoncino, succo di pomodoro o Clamato. È solitamente servita in un bicchiere salato sull'orlo.
Tra Messico e Sud America si trovano molte varietà del cocktail. Recentemente molte case produttrici di birra americane hanno messo in vendita la Michelada già pronta in bottiglia.
In Messico la bevanda è considerata utile come rimedio al malessere da sbornia. A Città del Messico la più famosa Michelada è preparata con birra, lime, sale e salsa piccante.

sabato 19 febbraio 2022

Abbazia di Maredsous

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L'abbazia di Maredsous è un monastero benedettino del XIX secolo, situato a Denée, nella provincia di Namur, Belgio.
Fa parte della Congregazione dell'Annunziata dell'Ordine di San Benedetto.

Fondazione

Fu fondata il 15 novembre 1872 da un monaco belga, Ildebrando de Hemptinne, che più tardi divenne abate.
La costruzione fu finanziata dalla famiglia Desclée, che commissionò un edificio maestoso all'architetto Jean-Baptiste Béthune (1831–1894), massimo esponente dello stile neogotico in Belgio. Il progetto era basato sulla pianta della abbazia cistercense di Villers-la-Ville nel Brabante Vallone, del XIII secolo. I lavori terminarono nel 1892, 20 anni più tardi.

Prodotti

L'abbazia di Maredsous è parimenti famosa per la sua birra d'abbazia quanto per i formaggi che vi sono prodotti.

Birra Maredsous

L'abbazia ha concesso in licenza il proprio nome alla Brouwerij Duvel Moortgat, che produce quindi la birra Maredsous. Tre sono le birre in produzione:
  • Maredsous Blonde (6°):
  • Maredsous Bruin (8°):
  • Maredsous Tripel (10°):

venerdì 18 febbraio 2022

Birra




La birra è una bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione di mosto a base di malto d'orzo, aromatizzata e amaricata con luppolo.
La birra è una delle più diffuse e più antiche bevande alcoliche del mondo. Viene prodotta attraverso la fermentazione alcolica con ceppi di Saccharomyces cerevisiae o Saccharomyces carlsbergensis di zuccheri derivanti da fonti amidacee, la più usata delle quali è il malto d'orzo, ovvero l'orzo germinato ed essiccato, chiamato spesso semplicemente malto.
Vengono poi usati frumento, il mais, il riso - questi ultimi due specialmente come aggiunte in birre di produzione industriali - e, in misura minore, l'avena, il farro, la segale. Altre piante meno utilizzate sono invece la radice di manioca, il miglio e il sorgo in Africa, la patata in Brasile e l'agave in Messico.
Per produrre la birra, il malto viene immerso in acqua calda dove, grazie all'azione di alcuni enzimi presenti nella radichetta che si forma durante la germinazione, gli amidi presenti vengono convertiti in zuccheri fermentescibili. Questo mosto zuccheroso può essere aromatizzato con erbe aromatiche, frutta o più comunemente con il luppolo. Successivamente viene impiegato un lievito che dà inizio alla fermentazione e porta alla formazione di alcool, unitamente ad anidride carbonica, che viene per la maggior parte espulsa, ed altri prodotti di scarto derivanti dalla respirazione anaerobica dei lieviti.
In questo processo si utilizzano ingredienti, tradizioni e metodi produttivi diversi. Il tipo di lievito e il metodo di produzione possono essere usati per classificare le birre in ale, lager o birre a fermentazione spontanea.

Etimologia

La parola italiana birra deriva dal tedesco Bier, un prestito del XVI secolo. Il termine ha rimpiazzato l'antico cervogia, che indicava le birre fatte senza luppolo. Dalla stessa parola tedesca deriva il francese bière. Sono imparentati con Bier l'inglese beer e il neerlandese bier. L'origine della stessa parola germanica (dall'antico alto tedesco bior) è incerta: si pensa che sia un prestito del VI secolo dal latino volgare biber "bibita, bevanda", dal verbo latino bibere, oppure derivi direttamente dal protogermanico *beuwoz-, da *beuwo- "orzo".
In inglese si usa, oltre a beer, un altro termine per indicare la birra: ale. Antiche fonti inglesi fanno distinzione tra le due parole, ma non definiscono cosa si intenda per "birra" durante quel periodo, nonostante sia possibile che si riferisca all'idromele (mead). La forma dell'antico inglese beor è scomparsa subito dopo la conquista normanna dell'Inghilterra (in risposta all'introduzione del luppolo che non sarà ampiamente utilizzato per altri duecento anni), e il termine è rientrato a far parte della lingua inglese solamente secoli dopo, riferendosi esclusivamente alle bevande di malto con luppolo. Fino a quel momento il termine ale si riferì specificamente a birre senza luppolo, nonostante questa non sia più la definizione attuale della parola (indica infatti le birre ad alta fermentazione). Si ritiene che ale derivi direttamente dalla radice indoeuropea *alu-, e sia arrivata alla forma attuale attraverso il termine germanico *aluþ-. La stessa radice è all'origine dello svedese öl e del danese e norvegese øl; da queste è stata prestata alle lingue baltiche (lettone e lituano alus e a quelle baltofinniche (finlandese olut ed estone õlu).
Nelle lingue spagnola e portoghese, e nei loro dialetti, la bevanda viene chiamata cerveza, cerveja o con un termine analogo a questa forma, che deriva dal latino cervēsia o cer(e)vīsia così come il francese cervoise "birra senza luppolo", da cui cervogia. La forma latina è un probabile relitto mediterraneo preindoeuropeo come cerea o caelia, bevanda fermentata usata nella Spagna romana. La radice protoindoeuropea *ḱerh₃- (saziare, nutrire) è la stessa delle parole cereale, del verbo latino crescere e di Cerere, divinità romana della fertilità e patrona, fra le altre cose, dei raccolti. Un'altra interpretazione è che il termine provenga da una voce gallica.
Il termine proto-slavo *pivo, letteralmente "bevanda", è la parola per definire la birra nella gran parte delle lingue slave, con piccole variazioni fonetiche presenti tra lingua e lingua. In greco antico – la bevanda non era tradizionale in Grecia – la parola per la birra egiziana era ζῦθος zŷthos (forse da ζύμη zýmē, "lievito"), per quella frigia o trace βρῦτον brŷton; oggi si usa un prestito dall'italiano: μπίρα bíra.

Storia

(EN)
«For a quart of ale is a dish for a king.»
(IT)
«ché un boccale di birra è un pasto da re.»
(William Shakespeare, da Il racconto d'inverno, atto IV, scena III)
La birra è una delle bevande più antiche prodotte dall'uomo, probabilmente databile al settimo millennio a.C., registrata nella storia scritta dell'antico Egitto e della Mesopotamia. La prima testimonianza chimica nota è datata intorno al 3500-3100 a.C.. Poiché quasi qualsiasi sostanza contenente carboidrati, come ad esempio zucchero e amido, può andare naturalmente incontro a fermentazione, è probabile che bevande simili alla birra siano state inventate l'una indipendentemente dall'altra da diverse culture in ogni parte del mondo. È stato sostenuto che l'invenzione del pane e della birra sia stata responsabile della capacità dell'uomo di sviluppare tecnologie e di diventare sedentario, formando delle civiltà stabili. È verosimile che la diffusione della birra sia infatti coeva a quella del pane; poiché le materie prime erano le stesse per entrambi i prodotti, era solo "questione di proporzioni": se si metteva più farina che acqua e si lasciava fermentare si otteneva il pane; se invece si invertivano le quantità mettendo più acqua che farina, dopo la fermentazione si otteneva la birra.
Si hanno testimonianze di produzione della birra già presso i Sumeri. Proprio in Mesopotamia sembra sia nata la professione del birraio e testimonianze riportano che parte della retribuzione dei lavoratori veniva corrisposta in birra. Due erano i principali tipi prodotti nelle case della birra: una birra d'orzo chiamata sikaru (pane liquido) e un'altra di farro detta kurunnu. La più antica legge che regolamenta la produzione e la vendita di birra è, senza alcun dubbio, il Codice di Hammurabi (1728-1686 a.C.) che condannava a morte chi non rispettava i criteri di fabbricazione indicati (ad es. annacquava la birra) e chi apriva un locale di vendita senza autorizzazione. Nella cultura mesopotamica la birra aveva anche un significato religioso: veniva bevuta durante i funerali per celebrare il defunto ed offerta alle divinità per propiziarsele.
La birra aveva analoga importanza nell'Antico Egitto, dove la popolazione la beveva fin dall'infanzia, considerandola anche un alimento ed una medicina. Addirittura una birra a bassa gradazione o diluita con acqua e miele veniva somministrata ai neonati quando le madri non avevano latte. Anche per gli Egizi la birra aveva un carattere mistico, tuttavia c'era una grossa differenza rispetto ai Babilonesi: la produzione della birra non era più artigianale, ma era divenuta una vera e propria industria, con i faraoni che possedevano persino delle fabbriche.
Si parla di birra anche nella Bibbia e negli altri libri sacri del popolo ebraico come il Talmud; nel Deuteronomio si racconta che durante la festa degli Azzimi si mangiava per sette giorni il pane senza lievito e si beveva birra. Lo stesso avviene durante la festività del Purim.
La Grecia, più orientata sul vino, non produceva birra, ma ne consumava parecchia, soprattutto per le feste in onore di Demetra e durante i giochi olimpici durante i quali era vietato il consumo del vino. La bevanda arrivava in Grecia tramite i commercianti fenici.
Anche gli Etruschi e i Romani preferivano di gran lunga il vino, tuttavia ci furono personaggi famosi che divennero sostenitori della birra, come ad esempio Agricola, governatore della Britannia, che una volta tornato a Roma nell'83 d.C. portò con sé tre mastri birrai da Glevum (l'odierna Gloucester) e fece aprire il primo pub nella penisola italiana.
I veri artefici della diffusione della bevanda in Europa furono comunque le tribù Germaniche e Celtiche. Questi ultimi in particolare si stanziarono in Gallia, in Britannia e soprattutto in Irlanda, dove addirittura esiste una leggenda secondo cui gli irlandesi discendono da un popolo di semidei chiamati Fomoriani che avevano la potenza e l'immortalità grazie al segreto della fabbricazione della birra, che fu loro sottratto dall'eroe di Mag Meld.
Molti non riconoscerebbero come "birra" ciò che bevevano i primi abitanti dell'Europa in quanto le prime birre contenevano ancora al loro interno i prodotti da cui proveniva l'amido (frutta, miele, piante, spezie). Il luppolo come ingrediente della birra fu menzionato per la prima volta solo nell'822 da un abate carolingio e di nuovo nel 1067 dalla badessa Ildegarda di Bingen. Fu proprio merito dei monasteri durante il Medioevo il salto di qualità nella produzione della bevanda. Persino le suore avevano tra i loro compiti quello di produrre la birra, che in parte era destinata ai malati e ai pellegrini. Anche in Gran Bretagna la birra prodotta dalle massaie veniva messa a disposizione delle feste parrocchiali ed utilizzata per scopi umanitari. In Inghilterra in particolare, la birra divenne bevanda nazionale in quanto l'acqua usata per la sua produzione veniva bollita e quindi sterilizzata.
La birra prodotta prima della rivoluzione industriale era principalmente fatta e venduta su scala domestica, nonostante già dal settimo secolo d.C. venisse prodotta e messa in vendita da monasteri europei. Durante la rivoluzione industriale, la produzione di birra passò da una dimensione artigianale ad una prettamente industriale e la manifattura domestica cessò di essere significativa a livello commerciale dalla fine del XIX secolo. Lo sviluppo di densimetri e termometri cambiò la fabbricazione della birra, permettendo al birraio più controlli sul processo e maggiori nozioni sul risultato finale. Inoltre, sempre nello stesso periodo, furono eseguiti studi specifici sul lievito, che permisero di produrre la birra a bassa fermentazione, di gran lunga la più diffusa nel mondo.

Economia

Stando a dati raccolti nel 2005, l'industria birraria è diventata un business di proporzioni globali, dominata da pochi soggetti internazionali[26] (InBev, Anheuser-Busch, SABMiller, Heineken, Carlsberg solo per citarne alcuni), accanto a cui convivono molte migliaia di produttori minori che spaziano dai brewpub ai birrifici regionali.
Per avere un'idea dell'ordine di grandezza del giro d'affari, basta pensare che nel 2008 sono stati consumati oltre 180 miliardi di litri di birra che fruttano entrate totali per un ammontare di circa 400 miliardi di dollari (dati 2007).
Nel marzo 2008 la SABMiller divenne il più grande produttore di birra del mondo, acquistando l'olandese Royal Grolsch. La belga InBev era quindi al secondo posto di questa particolare "classifica" e la statunitense Anheuser-Busch era in terza posizione. Tuttavia il 18 novembre 2008 dalla fusione di queste ultime due società nacque la Anheuser-Busch InBev, che divenne così il leader mondiale del settore.
Il primato dei consumi spetta ancora all'Europa con 72 litri/anno pro capite, anche se nel 2008 si è verificato un calo della produzione e dei consumi. Negli ultimi anni l'industria birraria si sta espandendo notevolmente in nuovi mercati emergenti come l'America Latina o in misura ancora maggiore l'Asia. La crescita è notevole soprattutto in Cina, che è diventato il più grande mercato nazionale della birra con oltre 410 milioni di ettolitri prodotti. Un caso particolare è quello dell'Oceania che, sebbene abbia consumi pro-capite al livello di quelli europei, conta poco in termini di volumi totali a causa della scarsa popolazione.

Produzione casalinga

Accanto a questo business mondiale è molto attiva anche la produzione casalinga che rispecchia nel piccolo la produzione industriale. La produzione casalinga di birra è legale in Italia solamente dal 1995, anno in cui venne approvato il decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504.
In genere le attrezzature necessarie per una birrificazione casalinga sono raccolte in kit e distribuite da ditte specializzate. Sempre più diffusa è però la tendenza a procurarsi e costruirsi da soli gli strumenti necessari.
Per la produzione casalinga è possibile adottare tre diverse tecniche che differiscono tra di loro per la difficoltà e per la qualità del prodotto finale:
  • birra da estratto di malto luppolato
  • birra da estratto di malto non luppolato con o senza aggiunta di grani speciali
  • birra da all grain (partendo dai grani di malto e dagli altri ingredienti non preparati in precedenza).
La produzione di birra da estratto salta alcune fasi importanti del processo, tra cui l'ammostatura (mashing) e il lavaggio delle trebbie (sparging). Per questa ragione non è da considerarsi propriamente "birrificazione".
Negli ultimi anni sta prendendo piede presso gli appassionati una variante della tecnica All Grain, la BIAB (acronimo di "Brewing in a bag"). I grani macinati sono introdotti nella pentola di "mashing" all'interno di una sacca filtro, che può essere comodamente rimossa prima della bollitura. Saltando la fase di "sparging", la tecnica BIAB permette di ridurre notevolmente costi e tempi di produzione.

Ingredienti

I cereali

La produzione di birra è possibile con qualunque tipo di cereale. Questo però deve essere preparato affinché i suoi zuccheri diventino fermentescibili. In alcuni casi è sufficiente una semplice cottura, come nel caso del mais, mentre in altri casi è necessario "maltare" il cereale.

Il malto

Gli zuccheri contenuti nei chicchi d'orzo non sono immediatamente accessibili. È quindi necessario attivare un enzima presente nel chicco stesso. Questo enzima parteciperà alla riduzione delle lunghe catene di zuccheri. L'attivazione dell'enzima consiste semplicemente nel far germinare i chicchi. Quando si ritiene che l'attivazione enzimatica della germinazione sia arrivata allo stato ottimale, si interrompe il processo, riducendo l'umidità nei chicchi fino al suo valore minimo mediante l'essiccazione. Questo prodotto viene chiamato "malto verde". A questo punto bisogna cuocerlo per ottenere il "malto secco". A basse temperature si ottiene il minimo effetto di tostatura e si parla di "malti chiari". In proporzione a quanto si aumenta la temperatura del forno e/o il tempo di permanenza in esso, il malto risultante diventa più scuro. Si può arrivare fino al punto di bruciarlo producendo così i "malti neri" o "malti torrefatti". Il grado di tostatura del malto determina il colore della birra.

Miscela

Il termine "miscela", il cui nome tecnico è "grist", si riferisce ai cereali e ai tipi di malto che si utilizzeranno per preparare il mosto. Questi infatti possono essere composti da un solo tipo di orzo maltato, oppure da una "miscela" di diversi tipi, oppure ancora da malti ed altri cereali maltati e non. Le proporzioni e i componenti di questa miscela sono fondamentali per la scelta e la determinazione dello stile di birra che si vuole produrre.

Tipi di grano
I diversi cereali che si utilizzano per produrre birra presentano ognuno una serie di varietà botaniche che moltiplicano le possibilità di scelta del birraio. Si possono trovare sul mercato fino a 60 tipi diversi di grano, numero che aumenta considerevolmente se teniamo conto anche dei malti caserecci. Di base, i cereali si possono distinguere in quattro categorie:
  • Malti di base: sono malti chiari, poco cotti, con un grande potere enzimatico, che in genere formano la grande maggioranza, se non la totalità, della miscela. Fra essi il Pale Ale e il Pils, dal nome delle birre per cui vengono tipicamente impiegati; a volte sono commercializzati con il nome della varietà di orzo da cui sono ricavati, come il Maris Otter, un malto di tipo Pale.
  • Malti additivi: sono malti di colore scuro, dall'ambrato al nero, che sono stati cotti parecchio e che hanno perso tutto il loro potere enzimatico. In genere vengono usati in piccole quantità per influire sul colore o sul gusto della birra, oppure per motivi specifici della produzione della singola birra.
  • Malti misti: si tratta di malti che sono tostati maggiormente rispetto ai malti di base, tuttavia conservano proprietà enzimatiche sufficienti per poter essere usati sia come base, sia come additivi. In questa categoria incontriamo i malti color caramello o quelli ambrati conosciuti in Inghilterra come cristal.
  • Cereali crudi, tostati o in gelatina: i cereali possono essere utilizzati senza essere stati maltati per conferire gusto, aroma e altre caratteristiche alla birra. In genere si utilizzano in piccole quantità. Gli amidi dei cereali crudi sono trasformati dagli enzimi rilasciati nel mosto dai cereali maltati.

Additivi aromatici

Luppolo

L'additivo principale usato per compensare la dolcezza del malto, è il luppolo, introdotto nella produzione alla fine del primo millennio e diffusosi a partire dal XVI secolo. Di questa pianta si utilizzano i fiori femminili non fecondati. Alla base della sua brattea c'è una ghiandola che contiene la luppolina, che è la sostanza che conferirà il sapore amaro alla birra. In particolare i responsabili di questa amarezza sono gli acidi amari (in particolare gli alfa acidi, e in misura minore i beta acidi) mentre gli oli essenziali, costituiti da composti volatili e delicati a base di esteri e di resine, contribuiscono all'aroma. Esistono numerose varietà botaniche di luppolo e sono oggetto di studio intenso. Il luppolo è la causa della stimolazione dell'appetito che produce la birra. Vengono classificati in diverse categorie:
  • luppoli da amaro: si tratta di luppoli caratterizzati da una elevata percentuale di alfa acidi e per questo economicamente convenienti per apportare amaro; vengono perciò generalmente usati all'inizio della bollitura per massimizzarne l'estrazione. Le loro proprietà aromatiche sono quindi di minor interesse, benché per certe varietà possono risultare di buona qualità.
  • luppoli da aroma: particolarmente pregiati per il loro apporto aromatico e utilizzati in tal senso, generalmente a fine bollitura per non disperdere gli aromi volatili. Il loro apporto di alfa acidi, talvolta molto basso, è quindi di minor interesse, per quanto possa essere elevato in alcune varietà. In questa categoria si conoscono specialmente il saaz che caratterizza lo stile pilsner, lo spalt ed il tettnang nell'area tedesca, le varietà golding e fuggle, nell'area anglofona. Esistono anche varietà americane, dalle spiccate note agrumate in aroma (Cascade, Amarillo e Centennial).
  • luppoli ambivalenti: caratterizzati da un'alta percentuale di alfa acidi e di buone qualità aromatiche, possono essere impiegati sia per aroma che per amaro.
Il luppolo è molto delicato e viene normalmente essiccato subito dopo il raccolto che avviene dalla fine di agosto ad ottobre a seconda delle varietà e del microclima della zona di coltivazione. L'impiego di luppolo non essiccato è di recente introduzione e solo per alcune birre stagionali: in tal caso deve essere impiegato nella preparazione della birra entro poche ore dal raccolto. Il luppolo sul mercato si trova in diverse forme: coni essiccati pressati, in plug (coni pressati in grosse pastiglie) oppure macinato e estruso in piccoli pellet; diffuso, specie nella produzione industriale, l'uso di estratti di luppolo.
La varietà e la freschezza del luppolo influenzano sensibilmente le caratteristiche finali della birra.

Altri additivi

Oltre al luppolo, nella storia si sono usati numerosissimi additivi botanici per la birra, tra cui:
  • Frutta. Normalmente fermentando il mosto della frutta si ottiene una bevanda alcolica, come ad esempio il vino. Tuttavia esistono molte birre nel cui processo produttivo si aggiunge frutta o succo di frutta o sciroppo prima della fermentazione. Si ha così un'ulteriore aggiunta di zuccheri che provocano una seconda fermentazione. L'uso della frutta è tipico di alcune varietà di lambic, che impiegano tradizionalmente la griotta (varietà di amarena del Belgio) e il lampone; la frutta viene altresì impiegata anche in altre birre a base differente dal lambic.
  • Piante. Oltre al luppolo di cui si è già parlato, le birre sono aromatizzate con altri tipi di piante (in aggiunta o in sostituzione del luppolo stesso) come ad esempio la canapa, il rosmarino, la castagna e il tabacco.
  • Spezie. Prima della grande diffusione del luppolo e delle altre piante aromatiche, le spezie trovarono il loro momento di gloria. Nel XXI secolo rimangono birre aromatizzate con zenzero, coriandolo, bucce d'arancia, pepe e noce moscata.
  • Altro. La birra può servire come sostanza ausiliaria o di supporto alle varie sperimentazioni dei produttori più audaci. Citiamo come esempi la birra aromatizzata col miele, tipica dei microbirrifici francesi, o la birra con uva o mosto d'uva, prodotta in particolare da microbirrifici italiani tanto da aver dato origine ad un nuovo stile riconsociuto, quello delle Italian Grape Ale (IGA).

L'acqua

La birra è composta dall'85% al 92% di acqua.
Oltre alle caratteristiche minerali e batteriologiche di potabilità che obbligatoriamente deve avere, ogni birra richiederà una qualità differente di acqua: talune necessitano di acque poco mineralizzate, altre acque più dure con molto calcare. Nella moderna produzione quasi nessuna birra viene prodotta con l'acqua così come fluisce, ma con acqua che viene prima trattata nel birrificio in modo da avere sempre le stesse caratteristiche e non alterare la ricetta. In particolare l'acqua viene a volte filtrata o demineralizzata al fine di ridurre la durezza. Solitamente viene anche sottoposta a procedimento di declorazione preliminare sia per ragioni produttive che organolettiche.
Tra i minerali dell'acqua che interessano maggiormente i birrai ci sono il calcio, i solfati e i cloruri. Il calcio aumenta la separazione del malto e del luppolo nella macerazione e nella cottura, e scurisce la birra dandole opacità e torbidezza. Il rame, il manganese e lo zinco, inibiscono la flocculazione dei lieviti. I solfati rinforzano l'amarezza e la secchezza del luppolo. I cloruri danno una tessitura più piena e rinforzano la dolcezza.
Nella moderna produzione si ha un consumo di circa tre ettolitri d'acqua per ogni ettolitro di birra prodotta.

Il lievito

La maggior parte degli stili di birra si produce utilizzando una delle due specie di microrganismi unicellulari del tipo Saccharomyces, comunemente chiamati lieviti. Si tratta di funghi che consumano zuccheri e producono alcol e anidride carbonica. Esistono fondamentalmente due famiglie di lieviti che definiscono i due più grandi gruppi di birre:
  • Lieviti ad alta fermentazione, come il Saccharomyces cerevisiae, che si trova nei fusti dei cereali e nella bocca dei mammiferi. Si tratta del tipo di fermentazione che si incontra normalmente in natura e agisce a temperature tra i 12 e 24 °C. Durante il processo il lievito sale in superficie del tino di fermentazione situandosi sulla superficie del mosto. Questo lievito fu scoperto da Louis Pasteur nel 1852 durante i suoi studi sulla birra. Le birre ottenute da questi lieviti vengono genericamente denominate "Ale".
  • Lieviti a bassa fermentazione, come il Saccharomyces carlsbergensis. Sono stati scoperti quasi involontariamente dai birrai del sud della Germania che mettevano le loro birre a maturare nelle grotte delle Alpi. Questi funghi, della specie Saccharomyces uvarum, agiscono a temperature comprese fra 7 e 13 °C e durante il processo si depositano sul fondo del fermentatore. Le birre ottenute vengono genericamente denominate "lager", termine che deriva dal tedesco e significa magazzino, dove la birra viene conservata "al fresco".
Nella produzione della birra, specialmente in quella chiamata a fermentazione spontanea, possono intervenire anche altri lieviti. In queste birre il produttore non ne seleziona nessuno in particolare, ma permette a tutti i lieviti in sospensione nell'aria di introdursi nel mosto. In questo modo intervengono, oltre al Saccharomyces, più di 50 fermentatori differenti tra cui il Lactobacillus, che è un batterio che produce l'acido lattico, ed il Brettanomyces, che produce l'acido acetico. Queste birre, che vengono chiamate Lambic, sono dunque acide per definizione, e la loro produzione richiede procedimenti speciali destinati a ribassarne il grado di acidità.

Processo produttivo

Il processo produttivo della birra viene chiamato "birrificazione" o "brassaggio" e richiede numerose fasi di lavorazione.
La prima di queste fasi è la "maltificazione" (detta anche "maltazione"): l'orzo o gli altri cereali, dopo essere stati selezionati e ripuliti, vengono immessi nelle vasche di macerazione dove ricevono l'acqua e l'ossigeno necessario per la germinazione.
Questo processo dura in genere tre o quattro giorni durante i quali l'acqua è mantenuta a temperature comprese fra i 12 e i 15 gradi e viene continuamente cambiata. Una volta che è stato raggiunto il grado di umidità sufficiente, l'orzo viene messo a germinare per circa una settimana nei cassoni di germinazione o comunque in un luogo ben aerato.
Il processo viene arrestato tramite essiccazione o torrefazione quando il germoglio ha raggiunto circa i due terzi della lunghezza del chicco.
L'orzo maltato viene quindi macinato fino ad ottenere una specie di farina che viene poi miscelata con acqua calda a circa 65-68 gradi. Questa fase è detta ammostamento, in quanto il malto si trasforma in mosto. Precisamente questo avviene quando l'amido ancora presente nel malto si trasforma in maltosio, uno zucchero. La massa mantenuta in agitazione viene portata, con opportune soste, alle temperature ottimali per l'attività enzimatica di degradazione di amido e proteine, favorendone così la solubilizzazione nel mosto.
La parte liquida viene quindi separata dalla parte solida tramite "filtrazione" all'interno di un tino filtro, in cui il mosto con le trebbie viene pompato dal basso. Quando tutto il mosto è stato trasferito, si lascia che le trebbie sedimentino sul falso fondo forato, e si procede quindi alla filtrazione. Per raggiungere un buon livello di limpidezza, il mosto viene fatto ricircolare più volte.
Il passo successivo è la "cottura" del mosto all'interno di apposite caldaie, tradizionalmente in rame che è un ottimo conduttore termico e che non si degrada eccessivamente. Il tempo di cottura è fondamentale per la scelta del tipo di birra che si vuole produrre ed anche per la sua qualità, in quanto durante questo processo avvengono la gran parte delle reazioni biochimiche; normalmente varia tra un'ora e due ore e mezza. Durante la bollitura, che nei birrifici moderni avviene tramite getti di acqua bollente ad alta pressione, si ha anche l'importante processo di sterilizzazione del mosto. Sempre durante questa operazione avviene l'aggiunta del luppolo. In genere la sala di cottura viene considerata come il "cuore" del birrificio.
Nel corso dell'ebollizione, in seguito a reazione tra i polifenoli del malto e del luppolo e le proteine del malto, si formano complessi insolubili che costituiscono il trub a caldo". Questo tende a precipitare al termine del processo e l'allontanamento è considerato fondamentale per la qualità e la stabilità della futura birra. Questa azione è effettuata mediante l'uso del whirlpool, tino in cui il mosto giunge tangenzialmente generando una forza centrifuga che determina la raccolta della fase torbida sul fondo, al centro del recipiente, e permette la separazione di una fase liquida limpida.
In seguito il mosto viene raffreddato fino a temperature a cui può avvenire la fermentazione: dai 4 ai 6 gradi per la bassa fermentazione e dai 15 ai 20 gradi per quella alta.
La fermentazione si divide in due fasi; la prima, detta fermentazione principale, vede come protagonista il lievito che ha la funzione di trasformare gli zuccheri e gli aminoacidi presenti nel mosto in alcol, anidride carbonica e sostanze aromatiche. Il processo che utilizza Saccharomyces cerevisiae è più rapido, in genere tre o quattro giorni, di quello a bassa fermentazione, in quanto si svolge a temperature superiori e i processi di fermentazione sono favoriti dal calore. Questo lievito inoltre risale in superficie e viene recuperato con schiumature e per questo è notevolmente economico.
La fermentazione secondaria, detta anche maturazione, invece consiste nel lasciare per circa quattro o cinque settimane la birra in grosse vasche di maturazione a una temperatura compresa fra 0 e 2 gradi. Questa operazione permette di saturare di anidride carbonica la birra e di far depositare i residui di lievito, oltre che armonizzare i vari ingredienti.
Infine c'è la pastorizzazione che è un processo a cui non tutte le birre vengono sottoposte. Consiste nel portare la birra alla temperatura di 60 gradi per distruggere alcuni microrganismi e quindi conservare maggiormente il prodotto. La birra non pastorizzata viene definita cruda.
Alla fine del processo alcune birre vengono filtrate per toglierle i residui di opacità e infine imbottigliate o infustate.
Esistono alcune birre che sono "rifermentate in bottiglia". In questo caso, prima di chiudere il tappo, si aggiunge del lievito in modo che, oltre alle due ordinarie fermentazioni, ne avvenga una terza che aumenta il tasso alcolico. Sono un'eccezione le birre di frumento che, pur avendo lievito all'interno della bottiglia, mantengono una gradazione normale.

Tipi di fermentazione

Tra le fasi del processo produttivo la fase di fermentazione del mosto è quella che non solo determina il carattere e il contenuto alcolico della birra, ma è pure origine di una serie rilevante di sostanze che ne influenzano gli aspetti organolettici non solo gustativi e di struttura, ma anche di sensazioni odorose e aromatiche.
Vi sono due tipi di fermentazione: l'alta fermentazione e la bassa fermentazione. Queste due procedimenti diversi sono alla base della classificazione nei due distinti macro tipi di birra omonimi. Si veda Classificazione dove viene spiegato che in realtà esiste, se pur pochissimo diffusa, anche un terzo tipo di fermentazione. Il diverso intervallo di temperatura a cui si svolgono i due tipi di fermentazione è una condizione fisica imprescindibile per lo svolgimento dei processi enzimatici e chimici peculiari dei due ceppi di lieviti distinti.
Dal punto di vista terminologico la dizione "alta" e "bassa" relativa alla fermentazione del mosto di birra non è legata al diverso intervallo di temperatura, più alto nell'utilizzo del Saccharomyces cerevisiae per le birre Ale e più basso nell'utilizzo del Saccharomyces carlsbergensis per le birre Lager. Anche se abbastanza diffusa, questa spiegazione è tuttavia errata. La dizione infatti è legata al movimento dei lieviti esauriti nel tino a fine fermentazione: il cerevisiae sale in "alto" ovvero in superficie, il carlsbergensis scende in basso, ovvero sul fondo. Il movimento in alto e in basso è conseguenza della specificità metabolica dei due lieviti diversi.
Fu lo stesso Emil Christian Hansen, lo scienziato danese che nel laboratorio della Carlsberg per primo utilizzò il tipo di lievito che poi prenderà il suo nome, a suddividere i lieviti per la produzione della birra in top-fermenting (alta fermentazione, ove top si riferisce al fatto che "si dirigono in alto") e in bottom-fermenting (bassa fermentazione, ove bottom si riferisce al fatto che "si dirigono in basso").
Nei birrifici, quando si produce una birra di stile ale, si può assistere alla consueta operazione di raccolta della massa di lievito sulla superficie del tino con l'impiego del tradizionale "cucchiaione". Invece, nei serbatoi ove si è svolta la fermentazione di una birra di stile lager, il lievito forma una specie di marmellata che si adagia sul fondo della vasca da dove viene poi estratto.



Classificazione

Sono numerose le possibilità di classificare le birre.
La classificazione che trova maggior impiego fa riferimento al tipo di lievito utilizzato e, conseguentemente, al tipo di fermentazione. In questo senso le birre si dividono in tre grandi famiglie:
  • Ale: sono prodotte con i lieviti della specie Saccharomyces cerevisiae e seguono un processo ad "alta fermentazione" che predilige temperature elevate. È il procedimento più antico che rimane tuttavia ancora profondamente radicato specie nella cultura birraria britannica e fiamminga.
  • Lager: sono prodotte con i lieviti della specie Saccharomyces carlsbergensis e seguono un processo a "fermentazione bassa" che predilige temperature basse. Il procedimento industriale è più recente e garantisce una maggior stabilità e ripetibilità, permettendo a queste birre di essere di gran lunga le più diffuse sul mercato.
  • Lambic: sono prodotte esclusivamente in una regione del Belgio meridionale, dove il mosto è esposto a lieviti indigeni selvatici, come il Brettanomyces bruxellensis; il processo si sviluppa seguendo una "fermentazione spontanea", che conferisce a queste birre caratteristiche uniche al mondo.
Spesso alle ale sono riconosciute caratteristiche di maggior complessità grazie ai sapori e agli odori ricchi di aromi floreali, speziati e fruttati, mentre le lager sono più frequentemente "pulite" ed evidenziano soprattutto il carattere di malto e luppolo.
Un'altra classificazione particolarmente intuitiva, ma poco significativa se utilizzata come unico fattore di discriminazione, è quella basata sull'indicizzazione del colore, generalmente misurato sulla scala SRM. Il colore dipende dal tipo di maltazione subito dai cereali impiegati, anche se in alcuni rari casi può essere alterato da coloranti naturali come la clorofilla assumendo una colorazione verde smeraldo. Altra caratteristica visiva della birra è data dalla limpidezza o dalla opacità generalmente dovuta alla presenza di lievito in sospensione (nelle birre di produzione industriale il lievito viene eliminato prima dell'imbottigliamento per mezzo di filtri).
Esiste anche una classificazione relativa al grado di amarezza percepito, misurato sulla scala IBU (International Bitterness Unit).
Un'ulteriore classificazione è legata al grado alcolico, generalmente misurato in percentuale di alcol sul volume della bevanda ("titolo alcolometrico volumico"), o alla quantità di zuccheri fermentescibili presenti nel mosto prima della fermentazione misurato in gradi Plato. Questo tipo di tassonomia ha particolare significato per l'industria e il fisco. Ogni nazione ha denominazioni caratteristiche talvolta derivanti dalla tradizione.

Stili birrari

Uno stile di birra contraddistingue la bevanda tenendo conto delle caratteristiche dette in precedenza quali colore, sapore, gradazione alcolica, ingredienti e ricetta, tipo di lievito utilizzato, tipo di fermentazione. Ogni stile ha una suo origine e storia e si è evoluto seguendo non solo tendenze di mercato ma anche l'evoluzione tecnologica e la convenienza economica, talora legata anche alla tassazione. Visti i vari tipi di classificazione possibili, una rigorosa suddivisione tassonomica non è applicabile: per comodità si possono suddividere a grandi linee a seconda del tipo di fermentazione, tenendo conto che fra le birre ad alta fermentazione per stout e birre di frumento non viene solitamente usata la denominazine di ale.

Ale

Le ale sono birre prodotte ad alta fermentazione. A questa grande famiglia appartengono stili birrari molto differenti: alcuni strettamente legati ad aree geografiche più o meno ristrette, come le ale belghe, altri di carattere più sovranazionale, come le birre di frumento che trovano comunque sfumature di regione in regione.
Le ale inglesi hanno un carattere fruttato, anche se meno evidente di quello delle belghe, e spesso evidenziano maggiormente il malto e il luppolo. Si distinguono tra esse gli stili:
  • bitter: costituiscono lo stile base inglese. Spesso ambrate e di gradazione piuttosto bassa (sotto i 10 gradi saccarometrici e 3,5%) e quasi sempre con un amaro pronunciato
  • mild ale: sono birre ancora più leggere delle bitter, piuttosto scure e tendenti al dolce; delicate, ma saporite nonostante la bassa gradazione
  • brown ale: possono esser considerate una versione un po' più forte delle mild
  • winter e old ale: birre ambrate o scure "da meditazione", adatte alla stagione invernale per via della gradazione alcolica alta
  • barley wine: letteralmente "vino d'orzo", sono birre molto forti (oltre 8% di alcool, con picchi che superano il 10%), a volte sciroppose o caramellate, piuttosto luppolate ma con l'amaro bilanciato dalla dolcezza del malto. Nel XXI secolo questo stile è ormai raro in Gran Bretagna, e trova la sua patria sempre più negli Stati Uniti
  • India Pale Ale: originariamente prodotte nel Regno Unito per l'esportazione nelle colonie, erano caratterizzate da una luppolatura ed un amaro eccezionali. Nel XXI secolo sono diventate rare in Europa e in genere "poco rispettose" della tradizione. Gli Stati Uniti invece hanno rivitalizzato e fatto loro questo stile, dando vita alle american pale ale.
Le ale belghe sono in genere più fruttate delle inglesi, spesso speziate ed a volte acidule. Gli stili di questo paese sono davvero tanti e molte birre fanno stile a sé. Tra i più riconosciuti troviamo:
  • blond ale: pur costituendo uno stile non molto tradizionale sono molto diffuse e all'inizio del XXI secolo considerabili come stile "base"
  • belgian pale ale: più tradizionali ma meno diffuse; sono affini alle cugine inglesi, ma con maggior carattere di lievito
  • saison: molto caratterizzate; dorate o ambrate, a volte acidule, ben luppolate e speziate
  • birre trappiste: in un certo senso più che uno stile (le birre sono piuttosto diverse fra loro) è un marchio di origine controllata: la denominazione è precisa e comporta che la birra sia effettivamente prodotta "da o sotto il controllo diretto di monaci trappisti". "Birra d'abbazia" è invece un termine meno significativo, che indica una bevanda la cui produzione è "laica" e che vanta una connessione storica con un'abbazia, talvolta non più esistente
  • dubbel o double: di gradazione medio alta (7%), scure, amabili e maltate
  • tripel o triple: bionde, ancora più forti (8-9% e più), fruttate e spesso relativamente luppolate
  • golden ale: affini alle tripel, altrettanto forti o quasi, anch'esse bionde
  • belgian strong ale: scure e forti, talvolta fantasiosamente denominate quadrupel.
Si annoverano infine alcuni "stili acidi" tipicamente belgi, sempre meno reperibili: le oud bruin, leggere e agrodolci, e le flemish red meno dolci e più acetiche, con commistioni tra i due stili.
Le ale tedesche annoverano le altbier di Düsseldorf - ambrate, non forti, maltate e piuttosto amare - e le chiare, leggere e delicate kölsch di Colonia. Sono entrambi degli stili ibridi in quanto fermentate con un lievito da alta fermentazione, ma ad una temperatura relativamente bassa e maturate ancora più al freddo. Hanno quindi gusto e aroma meno fruttato e più pulito rispetto alle vere e proprie ale.

Stout e Porter

Le stout sono birre ad alta fermentazione, caratterizzate da un colore molto scuro, spesso nero, e una tostatura molto marcata (torrefazione); in genere, la gradazione è relativamente bassa e l'amaro intenso; l'aroma del luppolo è invece moderato, sovrastato da quelli tipici di cacao e caffè. Si possono distinguere:
  • dry stout: rispecchiano in pieno queste caratteristiche e non presentano la minima traccia di dolcezza. La stout più conosciuta è l'irlandese Guinness
  • sweet stout: pur mantenendo colore scuro e note tostate, sono meno amare. Tra esse la milk stout si distingue per l'uso di lattosio (non fermentescibile) per aumentarne la dolcezza
  • oatmeal stout: di dolcezza intermedia, anch'esse ormai non molto diffuse, sono tipicamente vellutate grazie all'impiego di farina d'avena (in inglese appunto oatmeal)
  • oyster stout: ci sono tracce dell'abbinamento tra stout e ostriche (oyster in inglese) fin dal 1800, in alcuni scritti di Benjamin Disraeli. Nel 1929 ci fu il primo utilizzo delle ostriche nella produzione di birra, dapprima in Nuova Zelanda, poi imitato anche a Londra. Nel XXI secolo il termine oyster stout indica sia una stout fermentata con una manciata di ostriche nei tini, oppure semplicemente una bevanda che ben si accompagna ai molluschi
  • imperial stout: sono un incrocio tra il carattere delle dry stout e la potenza dei barley wine: forti, amare, tostate ed un po' fruttate.
  • porter: si possono considerare delle stout meno intense. Nei secoli scorsi lo stile generale di queste birre scure era indicato come porter, e quelle più forti venivano chiamate stout porter - e poi più semplicemente stout

Birre di frumento

Sono birre ad alta fermentazione caratterizzate dall'ampio uso di frumento (50% e oltre). Gli stili più famosi sono quello tedesco (denotate come weizen, ovvero "birre di grano", o weiss, ovvero "birre bianche", per via dell'aspetto opalescente) e quello belga (blanche in francese o wit in fiammingo con lo stesso significato). Le affinità fra questi stili riguardano, oltre all'uso del frumento, il colore chiaro, la gradazione media ed un certo carattere speziato e acidulo. Le differenze non mancano: le blanche impiegano frumento non maltato, le weizen frumento maltato; le blanche impiegano spezie come coriandolo e buccia d'arancia, mentre nelle weizen il carattere speziato è dovuto esclusivamente al lievito molto particolare che produce anche un caratteristico aroma di banana.
In Germania si producono anche weizen scure, denominate dunkelweizen o dunkelweissen e birre di frumento più forti: le weizenbock. Infine le berliner weisse, caratteristiche della regione di Berlino, sono più leggere e decisamente acidule.

Lager

Le lager sono birre di ogni colore e gradazione prodotte a bassa fermentazione. Le più diffuse sono quelle chiare, tra cui si distinguono:
  • pilsener o pils: stile classico di origine boema (il nome deriva dalla città di Plzeň); leggere dal colore chiaro o dorato, dalla luppolatura abbondante e dall'amaro pronunciato
  • helles: tipiche bavaresi, meno amare e più maltate
  • export o Dortmunder, leggermente più forti
  • märzen e oktoberfestbier: birre di colore dal dorato carico all'ambrato, gradazione maggiore (6% circa) e malto più pronunciato. I due termini indicano bevande molto simili: nonostante l'apparente disaccordo temporale infatti vengono tradizionalmente prodotte a marzo per un consumo autunnale, periodo in cui si svolge l'Oktoberfest. Le birre denominate Oktoberfestbier vengono prodotte prevalentemente dalle birrerie bavaresi, le uniche autorizzate alla vendita della birra all'Oktoberfest.
Sebbene spesso si associ erroneamente il termine lager alla birra chiara, non mancano in realtà lager scure, tra cui:
  • dunkel: birre brune, decisamente dolci e maltate nel sapore
  • schwarzbier: più scure e tostate, una sorta di stout a bassa fermentazione, ma meno amara e più maltata
  • rauchbier: particolari birre "affumicate" (da rauchen, fumare in tedesco) tipiche della città tedesca di Bamberga, prodotte utilizzando malti affumicati su torba o legno di faggio.
Ci sono poi lager più forti, rappresentate in Germania dalla famiglia delle bock: di colore chiaro, gusto maltato appena equilibrato dal luppolo, in genere di gradazione alta (6,5% - 7,5% ma anche 8,0% per le scure e caramellate doppelbock). Ci sono poi altre lager extra-strong non appartenenti alle bock che, pur raggiungendo gradazioni alcoliche molto alte, rimangono comunque bilanciate e complesse nel sapore.
Esistono infine moltissime altre lager "internazionali", in buona parte prodotte da grandi industrie multinazionali. Solitamente fanno largo uso di riso e mais (spesso non maltati) per renderle leggere di corpo e poco caratterizzate in aroma; a volte sono associate a termini di mercato come ice o dry.

Lambic

Il lambic è una specialità della regione del Payottenland, a sud ovest di Bruxelles, ed è un tipo di birra così diverso che è talvolta considerato come bevanda a sé stante rispetto al mondo delle birre; le specialità tradizionali sono caratterizzate dalla loro intensità e ricchezza aromatica e dalla decisa acidità.
Il processo birrario è detto "a fermentazione spontanea": non viene inoculato alcun lievito selezionato, ma la produzione usa lieviti e batteri selvatici presenti nell'ambiente come il Brettanomyces bruxellensis (nell'aria o nelle strutture stesse del birrificio); l'inoculazione avviene lasciando raffreddare lentamente il mosto caldo in vasche ampie e poco profonde, per massimizzare la superficie esposta all'aria. Durante la successiva lunga maturazione in botte intervengono altri lieviti selvaggi e batteri presenti nel legno stesso.
Il lambic "puro" non è frizzante, ma "sgasato", ed è raramente commercializzato in questa forma; più spesso viene rifermentato unendo lambic di annate diverse, dando origine alle spumeggianti gueuze; se è invece rifermentato assieme ad amarene o lamponi dà origine rispettivamente alle kriek e alle framboise. Diffuso ma meno tradizionale l'impiego di altri frutti come ribes nero, pesche o fragole. Da notare che il termine kriek viene talvolta utilizzato anche per birre a fermentazione non spontanea aromatizzate alla ciliegia.

La birra in cucina

La birra, come succede anche con il vino, entra come componente nella cottura di numerosi piatti quali, ad esempio:
  • Arista di maiale alla birra
  • "Steak and Ale Pie", piatto inglese che consiste in uno stufato di carne di manzo cotto con birra (solitamente una ale),"impiattato" in un tortino di pasta sfoglia.
  • Bauernschmaus, piatto tedesco a base di carré di maiale cotto nella birra
  • Marmellata-birra alle ciliegie fatta in casa con focaccine
    La Carbonade flamande, piatto di origine fiamminga costituito da uno stufato di manzo
  • Costine di maiale alla birra
  • Carré di lombo di maiale alla birra scura
  • Stinchi di maiale alla birra (piatto tipico bavarese)
  • Würstel con crauti, salsicciotto tedesco cotto nella birra e accompagnato da crauti
Inoltre il prodotto alcolico viene impiagato nella marmellata-birra, una marmellata con ingrediente principale la birra e usata come ripieno di biscotti o come accompagnamento in prodotti da forno, salumi, cracker, carni e verdure.

Chimica della birra

La birra contiene vitamine (vitamina B1, B2, B5, B6 e H) oltre che fosforo, potassio, magnesio, zolfo, fluoro, sodio, rame, manganese, zinco, alluminio e ferro.
La birra inoltre contiene tirosolo, tryptophol e i seguenti acidi fenolici: feniletanolo, acido 4 -idrossifenilacetico, acido vanillico, acido caffeico, acido siringico, acido p-cumarico, acido ferulico e acido sinapico.
Il luppolo, che viene utilizzato nella produzione della birra, contiene 8-prenilnaringenina (un potente fitoestrogeno), umulene, myrcene, mircenolo, linalolo, alcol 2M2B, isoxanthohumol e xanthohumol.
Alcune società poi utilizzano additivi per stabilizzare e rendere più durevole la schiuma prodotta dalle molecole di biossido di carbonio in risalita. Questi additivi schiumogeni sono, oltre all'azoto, il glicole propilenico alginato e il solfato di cobalto
Infine il malto contiene le prodelphinidins B3, B9, C2.

 
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