domenica 4 ottobre 2020

Qual è il senso di prendere un caffè al bar, anziché ad una macchinetta o a casa?

Lo sostengo da tempo, e la pandemia me lo ha confermato.

Per me il grande valore di un caffè al bar non è la sua bontà, quanto piuttosto il significato che ha questa abitudine.

Il caffè che mi preparo a casa con la moka è migliore dell'80% dei caffè che posso trovare in un bar. Sono pochi i bar che fanno caffè davvero esclamativi, di quelli da farti esclamare "che buon caffè"! A casa ho imparato a farlo molto bene e non avrei motivo di arrischiarmi in un bar anziché prenderlo a colazione dalla mia fida moka.

Ma il valore di quell'euro (ormai 1,10 euro…) è un altro.

Il caffè è un'occasione per scambiare due chiacchiere con il barista, con gli altri avventori, gettare uno sguardo al quotidiano, ascoltare le parole di chi è nel locale. Il caffè è socialità, non è solo un caffè.

O almeno, è così per me.

Me ne sono reso conto durante il lockdown della pandemia, quando mi mancava quel momento, non tanto il caffè di per sé.


sabato 3 ottobre 2020

Whisky: con acqua o liscio? La risposta arriva dalla scienza

whisky


Un bicchiere di cristallo stretto tra le mani e, dentro, un liquido ambrato che chiede solo di essere gustato, lentamente, affinché il sapore raggiunga nel profondo il cuore di chi si appresta a bere, magari circondato da pareti in boiserie o davanti ad un bancone di legno, tra luci soffuse, il fumo delle sigarette (è una immagine poco salutista, lo ammetto) e un sassofonista che, in sottofondo, ricorda a tutti che la vita è jazz.
Poi il dilaniante dilemma: acqua o non acqua? Acqua versata nel whisky o in un altro bicchiere?
Un quesito che potrebbe suonare blasfemo alle orecchie dei puristi, convinti che il liquore, quale che sia la sua origine (Scozia, Irlanda, Inghilterra, Stati Uniti, Canada) solo se liscio può mantenere intatto il gusto e regalare il meglio di sé.
Ma, di contro, sono in molti quelli che dicono che ''con l'acqua è meglio'' senza spiegare se deve essere aggiunta al whisky o, secondo un'altra seguita scuola di pensiero, che ha molti adepti non solo negli Stati Uniti, bevuta pura da un altro bicchiere, messo accanto a quello principale (nei film, i barman lo poggiano senza nemmeno chiedere se lo si vuole: ma quello è cinema).
Discussioni da bar (ah, quanto azzeccata questa definizione), ma non tanto perché ora, a mettere una parola non so sino a quando definitiva, arriva uno studio di una rivista, Scientific reports, che sancisce come addizionare l'acqua al whisky, nello stesso bicchiere, ne accresce il gusto.
Una sentenza che non è frutto di un giro di telefonate tra amanti del buon bere, ma ha una base scientifica, a dire il vero non facile da spiegare, ma ci tenteremo.
La prima idea che può balzare in testa è che aggiungere acqua attenui la forza del liquore, consentendo di percepirne meglio l'aroma, ma non è completamente vero perché, dicono i ricercatori, non bisogna farsi ingannare dal fatto che il liquido color ambra sembri uniforme perché, invece, vi si combatte una lotta chimica tra molecole.
Ed è anche questo, cioè la presenza di migliaia di molecole, che diversifica il whisky a seconda delle regioni nelle quali viene prodotto e che, evidentemente, le rende particolari. Avendo preso come base della loro indagine il whisky scozzese, lo scotch, i ricercatori hanno lavorato su uno dei suoi componenti più caratterizzanti, il guaiacolo, una molecola organica che trova la sua origine nelle botti di rovere dove il liquore viene invecchiato. La ricerca di Scientific reports spiega che non tutte le molecole hanno il medesimo comportamento nel rapporto con l'acqua perché ce ne sono che hanno difficoltà a mescolarvisi (le idrofobiche) ed altre che invece lo fanno con facilità (le idrofile).
Ed è qui che entra in azione l'alcool etilico che beneficia di entrambe le condizioni, determinando, cerchiamo di spiegarlo con parole semplici, una partizione del liquore, con la parte idrofila che crea le pareti di una bolla e quella idrofoba che la tiene separata. Ecco allora che quando la gradazione alcolica è alta che il sapore resta racchiuso in queste bolle che, a contatto diretto con l'acqua, andranno verso la superficie rendendosi meglio gustabili dalla lingua.
Discussioni di fine estate, come ce ne sono tante e che sembrano tutte volere ridicolizzare i nostri miti magari.
Il whisky resta whisky, sia che lo si beva liscio o che lo di allunghi con acqua o con il ghiaccio.
Un ultimo interrogativo: ma a chi si accinge a bere un bicchiere di scotch si pone mai interrogativi esistenziali? Non credo, a meno che non sia preda di una sbornia malinconica.

venerdì 2 ottobre 2020

Cosa succederebbe se si bevesse Coca-Cola ogni giorno per 20 anni?

Forse non vi sorprenderà sapere che non sarebbe bello - e non sarebbero solo i vostri denti a soffrire.

Dopo una settimana, staresti già accumulando chili - e invecchieresti rapidamente - e dopo qualche anno, se ci provassi davvero, gli effetti potrebbero essere così brutti che andresti all'ospedale.

ASAP Science ha raccolto dati da studi di università, tra cui Yale, per arrivare al punto, spaventoso e completo, su ciò che una seria abitudine alla cocaina (o l'uso pesante di qualsiasi altro tipo di bevanda analcolica) ti farà realmente.

ASAP Science dice: "Dopo una settimana di sostituzione degli otto bicchieri d'acqua da voi consigliati con la cola, avreste consumato circa 5432 calorie in più".



I ricercatori di Yale hanno scoperto che quando le persone consumano bevande analcoliche, consumano anche più calorie, soprattutto perché le persone non tengono conto accuratamente delle calorie aggiunte nelle loro bevande.

E passare alla dieta non aiuta.

ASAP Science dice: "Gli esperimenti hanno scoperto che il gusto dolce, sia che si tratti di dolcificante reale o artificiale, aumenta il nostro appetito". Molti bevitori di bevande dietetiche pensano: "Sto bevendo una bevanda dietetica, mangio patatine fritte grandi con il mio pasto".

"Le bevande analcoliche possono anche farci invecchiare". I telomeri sono dei tappi protettivi alle estremità dei nostri cromosomi che si accorciano nel tempo, e si scopre che il loro tasso di accorciamento è quasi lo stesso in una persona che beve 600 ml di soda in un giorno.

E se si bevessero 2 litri di bibite al giorno? Beh, una donna ha fatto proprio questo per 16 anni di fila, fino a quando è stata ricoverata in ospedale a 31 anni.

Senza una storia familiare di problemi cardiaci, soffriva di aritmia e svenimenti, e gli esami l'hanno trovata carente di potassio, poiché sia il fruttosio che la caffeina possono portare alla perdita di potassio, attraverso le urine e la diarrea.


giovedì 1 ottobre 2020

Maître

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Per maître s'intende un semplice maestro o un maestro d'arte, un insegnante o il proprietario di un'attività predisposta all'ospitalità ed alla ricezione di clienti. Come appellativo è molto utilizzato nelle arti, nelle professioni e nell'insegnamento. Nei paesi francofoni esistono dei titoli di studio ed onorifici cui corrisponde l'appellativo di maître. Questo appellativo significa, nella più semplice traduzione italiana, "maestro" con un senso di "dominio-dominanza" ma anche con il significato di "responsabile" dei servigi offerti dalla "Casa" che ospita. Al femminile il nome diviene maîtresse, di cui si parlerà nel paragrafo legato all'antropologia sociale.

Nella ristorazione tradizionale

Nell'ambito della ristorazione il maître (più propriamente detto maître d'hôtel, anche se non necessariamente), opera presso una struttura alberghiera o comunque ricettiva; nel caso di ristoranti o di sala pranzo per alberghi esiste il maître di sala è il responsabile della ricezione, del ricevimento, dell'accoglienza, colui cioè che avendo provveduto all'organizzazione e all'aspetto generale, accoglie i clienti e sovrintende al personale di servizio, la cosiddetta brigata di sala, fissando i compiti dei vari addetti. Al maître ci si rivolge per richieste particolari, per lamentele o complimenti relativi al servizio, mentre la tavola viene approntata e servita dagli altri collaboratori; è suo, fra gli altri, il compito di gestire i rapporti tra cucina e sala, ordinazioni di fiori e complementi per gli arredi della/e sala/e, istruire la brigata di cucina per eventi o feste particolari, gestire clienti particolari o abituali ed organizzare il restante personale a sua disposizione. È infine colui che, finalizzato agli interessi del/i titolare/i o dell'azienda, cura il piacere e la soddisfazione del cliente, dal suo arrivo (guardaroba-auto in garage ecc.) alla sua uscita (conto, soddisfazione, assicurarsi che il cliente si sia trovato ben accolto dal suo staff).
In certi esercizi il maître corrisponde al padrone titolare dell'esercizio. In genere non interferisce con i compiti di cucina il cui capo indiscusso è lo chef. Con quest'ultimo stabilisce il menu del giorno o della stagione riferendo necessità eventualmente avvertite dai clienti in sala, comunque è anche suo compito la conclusione o il suggerimento di alcune voci nel menù.
Nei locali più tradizionali o raffinati veste un abbigliamento che si differenzia dal personale di servizio, in genere una giacca nera tipo smoking comunque mai vistosa, e con i toni dell'ambiente.
Esistono 3 tipi di maître e il più alto in grado è il maître d'hotel. Non necessariamente però, in un esercizio ristorativo e/o alberghiero, si trovano tutte e 3 le figure:
  • Maître d'hotel (o semplicemente maître): imposta e dirige il servizio, prende le ordinazioni e mantiene continuamente il rapporto con i clienti accertandosi che tutto stia procedendo per il meglio. Deve inoltre possedere una buona cultura generale ed un'ottima padronanza delle lingue straniere. È a stretto contatto con il direttore, con il food and beverage manager (detto F&B), con il sommelier - con il quale si consulta per l'abbinamento dei vini - e con lo chef con cui collabora anche per la compilazione dei menù.
  • Maître de salle: nel caso di un ristorante la figura di maître d'hotel è più propriamente detta maître de salle; tuttavia il maître de salle lo si trova anche in albergo e lì dirige la sala ristorante nel caso in quel momento non ci sia il maître d'hotel o nel caso in cui la sala sia molto grande.
  • Maître de rang: il quale affianca lo chef de rang che si occupa di una sezione della sala ristorante (chiamata rango) molto importante; è tuttavia una figura molto rara, per il fatto che i ranghi importanti non sono poi molti.

Nel settore giuridico

  • Maître è l'appellativo usato in Francia per i professionisti del settore giuridico, ossia avvocati e notai.






Nel settore della sicurezza

  • Maître chien è un istruttore cinofilo destinato a compiti di sicurezza sia pubblica che privata;
  • Maître nageur è il bagnino di salvataggio;
  • Maestro d'armi è l'istruttore di armi.

In antropologia sociale

L'utilizzo al femminile maîtresse ha vari significati (alcuni dei quali sono la trasposizione dell'appellativo al maschile, come ad esempio nel senso "proprietaria di"), tra cui:
  • amante o, con riferimento a determinati periodi storici, "favorita" o "amante titolare" ad esempio nel caso della Maîtresse-en-titre o maîtresse royal di alcuni reali.
  • la tenutaria di una casa di tolleranza; per traslato anche prostituta.

mercoledì 30 settembre 2020

Oncia

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Storicamente l'oncia è un sottomultiplo dell'unità di misura principale normalmente adottata, tanto che, nell'uso comune della lingua italiana, l'espressione "un'oncia" è sinonimo di "piccola quantità".
Principalmente il termine indica l'unità di misura di massa (o peso) utilizzata in alcuni ambiti commerciali specialmente di cultura anglosassone (convenzionalmente si fa riferimento alla libbra), anche se non fa parte del Sistema internazionale di unità di misura (SI). Esiste anche l'oncia liquida, unità di volume.
Il valore di riferimento non è sempre lo stesso, ma varia a seconda dell'ambito in cui si opera.

Origini storiche

Il termine fu introdotto dagli antichi Greci, i quali, avendo un sistema a base duodecimale, indicarono con questo termine una grandezza minima corrispondente alla dodicesima parte di una unità, sia come lunghezza sia come peso.
Anche i Romani l'adottarono chiamandola uncia e destinandola a identici usi. Dal momento che le unità metriche e ponderali, pur sotto il medesimo nome recavano valori differenti da luogo a luogo, pur indicando sempre la dodicesima parte di ogni grandezza assunta come unità (del piede, del palmo o del braccio, a seconda delle regioni), all'oncia corrispondevano valori diversi a seconda delle città nella quale era usata.
Come sottomultiplo delle unità di lunghezza, l'oncia indicava 1/12 del piede.
Così come sottomultiplo dell'unità di peso l'oncia indicava un dodicesimo della libbra; in Toscana prima dell'annessione al Regno d'Italia valeva 28,30 grammi. A Forlì, invece, a nord dell'Appennino, valeva 24 grammi. Nello stato veneziano, prima della sua caduta, l'oncia rappresentava la dodicesima parte dell'unità metrica del piede vicentino. A sua volta un'oncia era divisa in quattro minuti.
Once quadrate e cubiche furono applicate alla misura delle aree e dei volumi.

Uso attuale

L'oncia (ounce) è ancora utilizzata negli Stati Uniti, come retaggio del sistema imperiale britannico per misure di massa o di peso. In tale sistema sono stati storicamente attivi diversi riferimenti per la misura del peso. In particolare sopravvive il sistema avoirdupois in cui la libbra vale 453,59 grammi e quindi 1 oncia, pari a un sedicesimo (1/16) di libbra (pound), equivale a 28,35 grammi e si indica col simbolo oz.
È anche usata internazionalmente come unità di misura dai barman.
Tuttavia, per il commercio dei metalli preziosi è utilizzata in tutto il mondo l'oncia troy, che deriva dall'oncia del vecchio sistema "troy" in cui la libbra corrisponde a 373,24 grammi e l'oncia valeva un dodicesimo (1/12) di libbra. L'oncia troy dunque equivale a 31,1035 grammi e si indica col simbolo ozt.
Nei paesi anglosassoni in farmacia è usata l'oncia apothecaries' che corrisponde esattamente all'oncia troy. Quando è necessario distinguere l'oncia usata comunemente dall'oncia troy o apothecaries' si specifica oncia avoirdupois.

Oncia liquida

Esiste anche l'unità di misura di volume oncia fluida (fl oz), calcolato a partire dalle misure di gallone e pinta e in modo differente nel sistema inglese o americano. Solo per l'etichettatura degli alimenti negli Stati Uniti, il valore di un'oncia liquida è fissato esattamente a 30 ml.


martedì 29 settembre 2020

Coffee-shop

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Con il termine coffee-shop (nei Paesi Bassi i termini vengono uniti in coffeeshop) vengono indicati i locali autorizzati dallo Stato dei Paesi Bassi, per vendere al consumo modesti quantitativi di droghe leggere, regolamentati da una politica in vigore nei Paesi Bassi.


Caratteristiche

Generalmente all'interno di questi locali è possibile consumare, provare e confrontare gli effetti delle diverse varietà e qualità di droghe leggere, ricevendo anche consigli dai venditori. Nei locali spesso si possono ritrovare tutti gli accessori adatti o adattati, per l'uso e il consumo di cannabis; assieme a una vasta gamma di cannabinoidi naturali e non sofisticati, vengono talvolta venduti dolci a base di queste sostanze, come la space cake e lo space chocolate.

Diffusione

In Olanda attualmente sono presenti regolari coffeeshop in 105 delle 443 municipalità esistenti per un totale di circa 702 licenze; il numero di tali esercizi è stabile da circa 10 anni. In passato, nel 1995, il censimento di tali locali annotava oltre 1500 coffeeshops regolari ed ulteriori 600 non completamente regolarizzati. Amsterdam, la capitale dei Paesi Bassi, è la città con la maggiore densità (241 licenze circa) di questo tipo di imprese commerciali (talvolta organizzate in catene e franchising). Per tal motivo in molti strati della cultura giovanile europea, Amsterdam è divenuta sinonimo di luogo in cui svolgere vacanze con connotazioni trasgressive (anche per il fatto che in città è presente la prostituzione legalizzata).
Negli ultimi anni i governi olandesi hanno attuato una serie di limitazioni regolamentari a queste attività commerciali, si è perciò parlato di possibili riduzioni del numero dei coffee-shop olandesi in seguito alle difficoltà economiche sopraggiunte ed all'adeguamento alle nuove norme. Negli anni novanta i coffee shop in Amsterdam erano circa 600; dal 2005 ad oggi, il loro numero fluttua tra 200 e 250.

Limitazioni

La quantità massima di droghe che può essere venduta è di 5 grammi a persona per giorno ed ogni fruitore comunque non potrebbe rivolgersi a più di 6 coffeeshop al giorno per un totale di 30 gr/giorno procapite ammessi. Tale limitazione è stata istituita sia per scopi medici, sia per non permettere l'esportazione di tali sostanze all'estero (marijuana, hashish). I funghi allucinogeni, in passato "a catalogo" in questi locali, sono ora vietati dalla legge, quindi illegali. Tutte le sostanze a base di cannabinoidi e tutti i preparati che ne contengono traccia devono essere opportunamente ed inequivocabilmente segnalati per evitare che possano essere acquistati e consumati inconsapevolmente.
I proprietari di coffee-shop devono comunque evitare ogni tipo di pubblicità al proprio locale, vietare l'ingresso ai minorenni se non accompagnati, e vanno incontro alla revoca immediata della licenza se al proprio interno viene consumata droga pesante. È altresì vietato servire bevande alcoliche all'interno dei coffee-shop non muniti di licenza.
Dal 1º maggio 2012 una nuova legge ha limitato l'ingresso nei coffee-shop, in alcune regioni del sud del paese, ai soli cittadini olandesi, legge che poi si sarebbe dovuta estendere in tutti i Paesi Bassi il 1º gennaio 2013. Tuttavia il nuovo Governo, insediatosi a seguito delle elezioni legislative del 2012 e sostenuto dal Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia, decise dal mese successivo di lasciare l'autonomia alle amministrazioni locali nel decidere se rendere operativa la legge, tenendo il criterio della residenza tecnicamente in vigore ma a discrezione delle autorità locali.

lunedì 28 settembre 2020

Flair bartending

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Il flair bartending, o comunemente detto flair, è l'insieme delle tecniche acrobatiche nella preparazione di cocktail inventate ed in uso dalla figura del barman.
Si fonda in questa tecnica psicologica dimostrativa e di vendita (atta ad accogliere ed intrattenere la clientela) e rapidità nell'esecuzione delle figure (l'organizzazione e tecnica di svolgimento lavorativa). Il bartender diventa perciò una figura che funge da agente catalitico mettendo a proprio agio la clientela e creando coinvolgimento e partecipazione della stessa allo spettacolo.
Il bartender tenendo in mano due o più bottiglie in una sola mano attua il “Flair” (che in inglese significa: fiuto, attitudine, inventiva). Eseguire il flair è semplicemente efficienza, che si esprime appunto nel movimento del corpo ed associato ad un pizzico di ispirazione personale. È quel tipo di prova in cui, ad esempio, si preparano i cocktail utilizzando i versaggi multipli o contemporanei di liquori, stravolgendo prese e lanci dei contenitori o bottiglie con movimenti a volte aggraziati o talvolta bizzarri, lanciando o afferrando gli stessi davanti o dietro la schiena, secondo una regia pianificata prima o improvvisata al momento, secondo l'esigenza.

Le Origini

Il flair contrariamente a quanto pensa la gente, esiste almeno da 150 anni. Infatti si ha notizia che il primo a praticare questo lavoro sia stato il celebre “professore” statunitense Jerry Thomas quando a metà del 1800 realizzò il suo famoso “Blue Blazer”, versando scotch infiammato e acqua da un tazzone all'altro in una lunga scia infuocata.
Per cercare invece le origini del flair più moderno, dobbiamo tornare indietro di qualche anno dai giorni nostri più precisamente agli inizi degli anni '80 dove alcuni ragazzi californiani lavorando in un bar ed avendo sempre molta gente all'interno del locale, si inventarono alcuni movimenti appositamente studiati per velocizzare il lavoro. La tecnica risultava sorprendente ed efficace e perciò viene subito adottata da altri colleghi. È così che la tecnica viene subito adottata da altri colleghi e presto diventerà una catena popolare di servizi di questo genere in tutta l'America. La catena venne chiamata TGI Fridays.
Passano alcuni anni ed è nel 1997 che ad Orlando in Florida, viene fondata un'accademia la Flair Bartenders' Association (FBA, con l'intento di tutelare e far crescere questa professione ed infine promuovere le prime gare e concorsi in giro per il mondo. Inutile dire che ad oggi la capitale mondiale del flair è diventata Las Vegas non a caso i migliori 4 flair bar del mondo si trovano proprio qui e sono: Carnaval Court, Shadows, Kahunaville, Red Room Saloon. Non di meno però è anche il Roadhouse un flair bar di Londra anch'esso considerato da poco tempo uno dei migliori.
Il 2008 è stato l'anno di fondazione della World Flair Association (WFA), associazione mondiale con sede a Londra, fondata per standardizzare lo stile del Flair Bartending.

Le varianti

Il Flair bartending a sua volta si divide in due varianti: Working Flair ed Exhibition Flair. Il Working Flair è caratterizzato da movimenti sia rapidi che morbidi, tutti eseguiti senza creare ritardi sui tempi di servizio al cliente. Praticato per lo più con un bicchiere, una bottiglia, un cono Boston, una guarnizione, occasionalmente con due bottiglie, è finalizzato alla composizione dei drink con frutta o altre decorazioni. L'Exhibition Flair è usato principalmente a scopo di intrattenimento o nelle competizioni , certe volte può durare anche diversi minuti. Spesso è usato nei locali quale segno distintivo, di campagne pubblicitarie, nella promozione di liquori, in occasione di momenti dimostrativi all'interno di fiere o dimostrazioni. Rispetto al working flair richiedere l'uso di materiale scenico, materiali singolari ed una preparazione più lunga e dettagliata.

Nella cultura di massa

Nella cultura di massa il flair divenne subito popolare da quando nel film Cocktail, diretto da Roger Donaldson, un giovane studente di economia, interpretato da Tom Cruise pian piano con il passare degli eventi intraprende una carriera a lui sconosciuta appunto quella di bartender. All'inizio della carriera è molto insicuro ed impacciato, ma alla fine grazie al flair diventa una grandissima star.

In Italia

In Italia si inizia a parlare di flair bartending nel 1992 quando iniziano ad arrivare le prime attrezzature per i bar dagli Stati Uniti per opera di Stefano Talice e Gianluca Pomati, titolari della "Varpo" i quali durante un incontro ad una fiera incontrano un talentuoso bartender portoghese, Paulo Ramos che dopo alcuni mesi di trattative lo fanno arrivare in Italia e dopo solo 2 mesi gli fanno aprire la prima scuola italiana di flair. Ecco che è così che il nostro paese conosce un periodo di grande popolarità ed iniziano ad emergere i primi talenti nostrani: Lorenzo Bianchi, Marco Sumerano, Bruno Vanzan e tanti altri ed iniziano ad arrivare dal circuito internazionale bartender dai paesi dell'Est, dall'Asia e dal Sud America, portando con sé stili diversi e nuove tecniche sempre più spettacolari.
Dopo questi primi anni brillanti però con il passare degli anni il flair è divenuta anche per certi versi la tecnica di lavoro più controversa, più discussa e più incompresa e per questo motivo anche criticata, molto spesso con poca cognizione di causa.

 
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