mercoledì 24 aprile 2024

Perché James Bond vuole il suo Vodka Martini "agitato, non mescolato"


Nel panorama dei cocktail classici, poche frasi sono diventate leggendarie quanto quella pronunciata da James Bond al momento dell’ordinazione: “Vodka Martini. Agitato, non mescolato.”
Un dettaglio apparentemente minore, ma che ha suscitato per anni discussioni accese tra barman, appassionati di mixology e fan dell’agente segreto più famoso del cinema. Ma cosa si cela davvero dietro questa richiesta? È solo stile? O c’è qualcosa di più?

Per comprendere la preferenza di Bond, bisogna partire dalle basi della preparazione di un Martini.

  • Mescolare (stirring): è la tecnica tradizionale per i drink limpidi e composti solo da alcolici (come il Martini classico). Si utilizza un mixing glass e un cucchiaio lungo, mescolando delicatamente il liquore con ghiaccio per raffreddarlo e diluirlo leggermente. Il risultato è un drink cristallino, elegante, con una consistenza setosa.

  • Shakerare (shaking): si utilizza per cocktail che contengono succhi, liquori densi o ingredienti non alcolici, come agrumi, panna o uova. Agitando energicamente, si introduce molta più aria e si scioglie più ghiaccio, ottenendo una maggiore diluizione e un raffreddamento più marcato. Ma si sacrifica la limpidezza: il risultato è un drink torbido, schiumoso, più ruvido al palato.

Nel caso del Martini, mescolare è la tecnica canonica. È ciò che consente al cocktail di mantenere la sua trasparenza brillante, con la sola oliva o scorza di limone a decorare il bicchiere. Shakerarlo, al contrario, lo rende torbido, e a tratti persino aggressivo in bocca.

James Bond ordina il suo Martini shakerato non per ignoranza, ma per una precisa scelta di stile. Una scelta ereditata dal suo creatore, Ian Fleming, che aveva la stessa preferenza. Per entrambi, ciò che conta è la temperatura: uno shaker ben agitato raffredda il drink più a fondo di quanto possa fare una semplice mescolata.

Nel mondo di Bond, la freddezza è tutto: autocontrollo, calcolo, distanza emotiva. Ecco quindi che un Martini gelido, quasi tagliente, diventa perfetta rappresentazione liquida della sua personalità. Torbido? Sì. Ma glaciale. E letale.

Come scrisse lo stesso Fleming nel romanzo Casino Royale, Bond beve un drink speciale (il "Vesper", a base di gin, vodka e Kina Lillet) "molto grande, molto forte e molto freddo".

Tecnicamente, no. Se un cocktail composto da vodka (o gin) e vermouth secco viene shakerato invece che mescolato, non si chiama più Martini, ma assume un altro nome: Bradford.

Il Bradford ha la stessa ricetta del Martini, ma l’aspetto e la consistenza sono diversi. Lo shaker lo rende più opaco, più leggero per via della maggiore diluizione, e spesso più pungente, perché l’agitazione “apre” certi profili aromatici. Ma nel purismo della mixology, un Martini agitato è un’eresia.

Eppure, il cinema ha fatto il resto: ormai l’immagine del Martini agitato è associata indissolubilmente all’agente 007, anche se — per usare un paradosso — il suo cocktail preferito non è realmente un Martini.

La scelta di Bond potrebbe anche riflettere un atteggiamento anticonformista. In un mondo in cui tutti ordinano Martini mescolati, lui lo vuole agitato. Vuole qualcosa di diverso, di più netto, di più freddo. È un segnale di controllo, anche nel dettaglio più banale: il modo in cui si beve.

C'è anche chi ha ipotizzato motivazioni più tecniche: secondo alcuni esperti, shakerando si ottiene una maggiore miscelazione tra vodka e vermouth, rendendo il sapore più uniforme. Altri sostengono che, soprattutto per la vodka (rispetto al gin), la torbidità non sia un problema, anzi, rafforza la sensazione di freschezza.

C'è infine chi legge nella preferenza di Bond una dichiarazione di disinteresse per l'estetica tradizionale: a lui non importa che il drink sia limpido. Gli importa che sia efficace.

Nel mondo reale della mixology, chiedere un Martini shakerato ti farà quasi sicuramente sollevare qualche sopracciglio dietro il bancone. Ma nel mondo narrativo di James Bond, la scelta è perfetta: riflette un personaggio glaciale, preciso, controcorrente.

In fondo, quella frase — “agitato, non mescolato” — non è solo un’istruzione al barista, ma una firma personale, una dichiarazione d’intenti. James Bond non è interessato alla forma quanto all’efficacia. E se per ottenerla deve infrangere una regola del galateo dei cocktail, non ci pensa due volte.

Forse non sarà un Martini "fatto come si deve", ma è il Martini di Bond, ed è questo che conta.



martedì 23 aprile 2024

Bere birra ogni giorno fa bene? Una questione di quantità, abitudini e salute



Nel cuore delle abitudini quotidiane di molti italiani — e non solo — la birra occupa un posto speciale. È la bevanda della socialità, del dopo-lavoro, delle grigliate estive e delle serate davanti alla TV. Ma cosa succede quando il consumo da occasionale diventa quotidiano? È davvero innocuo bere da una a quattro birre al giorno, tutti i giorni, per anni?

Analizziamo, con rigore scientifico e chiarezza divulgativa, i reali effetti del consumo quotidiano di birra sulla salute, distinguendo tra benefici e rischi, tra mito popolare e dati clinici.

La birra è una delle bevande fermentate più antiche al mondo, risalente a oltre 6000 anni fa. Nel Medioevo, era consumata regolarmente da uomini, donne e bambini. Tuttavia, quella birra era molto diversa da quella moderna: aveva una gradazione alcolica più bassa, spesso intorno al 2%, e fungeva da sostituto dell’acqua potabile nei contesti urbani in cui l’acqua era contaminata.

Oggi, con birre che viaggiano tra il 4,5% e l’8% di alcol, e con una disponibilità costante di acqua potabile, non ha senso giustificare il consumo quotidiano in base a quella tradizione storica.

Le principali organizzazioni sanitarie — tra cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il Ministero della Salute italiano e l’Istituto Superiore di Sanità — convergono su un concetto fondamentale: non esiste una quantità “sicura” di alcol, ma esistono soglie di consumo a basso rischio.

Per gli uomini: massimo 2 unità alcoliche al giorno
Per le donne: massimo 1 unità alcolica al giorno
1 unità alcolica = circa 330 ml di birra al 5%

Superare regolarmente queste soglie comporta un aumento del rischio per numerose patologie, anche in assenza di ubriachezza o dipendenza manifesta.

Bere da 1 a 4 birre al giorno, tutti i giorni, può sembrare innocuo, specie se non ci si sente mai “ubriachi”. Ma gli effetti dell’alcol sono spesso lenti e cumulativi, e possono colpire anche chi si sente in forma.

Ecco alcuni rischi documentati:

  • Danni epatici: steatosi, epatite alcolica, cirrosi

  • Ipertensione e problemi cardiaci

  • Aumento del rischio di cancro (esofago, fegato, colon, mammella)

  • Disturbi dell’umore e del sonno

  • Riduzione della memoria e della capacità cognitiva

  • Dipendenza: anche in forma lieve o “funzionale”

Chi beve quotidianamente tende a sviluppare tolleranza, ovvero la necessità di bere di più per ottenere lo stesso effetto rilassante. Questo è uno dei primi segnali di rischio.

La birra, in quantità moderate, contiene polifenoli, vitamine del gruppo B, sali minerali e fibre (nelle versioni non filtrate). Alcuni studi parlano di un possibile effetto protettivo per il cuore, ma questi benefici si riscontrano solo entro dosi minime, e in soggetti con uno stile di vita complessivamente sano.

Inoltre, lo stesso effetto si ottiene — o si supera — con una dieta mediterranea equilibrata, l’attività fisica e il consumo di frutta, verdura e olio d’oliva.

Molte persone associano la birra alla fine della giornata lavorativa: un momento di decompressione, di piacere personale. Questo è comprensibile. Ma se il consumo diventa un rituale fisso, automatico, legato allo stress o all’umore, si entra in un territorio delicato.

Bere per rilassarsi non è un problema in sé, ma lo diventa quando non si riesce a rilassarsi senza. È un segnale da non sottovalutare, soprattutto se si tratta di un’abitudine consolidata negli anni.

Ecco alcune domande utili per valutare se il consumo di birra sta diventando problematico:

  • Riesco a passare alcuni giorni senza bere?

  • Bevo anche quando non ho voglia, solo per abitudine?

  • Mi sento più irritabile o stanco quando salto il solito bicchiere?

  • Qual è il mio livello di energia, lucidità e sonno al mattino?

Rispondere onestamente può aiutare a capire se è il momento di rivedere le proprie abitudini.

Bere una birra al giorno non è necessariamente un problema, se:

  • Si rispetta la soglia delle 1-2 unità alcoliche

  • Non si cerca l’alcol per gestire stress, rabbia o ansia

  • Ci sono giorni senza alcol nella settimana

  • Lo stile di vita generale è sano e attivo

  • Non si notano segnali di dipendenza

Ma bere da 3 a 4 birre al giorno, ogni giorno, per anni può essere molto dannoso, anche in assenza di sintomi immediati.

La birra è un piacere, non una medicina. E come ogni piacere, può essere gustata con equilibrio, rispetto e buon senso.



lunedì 22 aprile 2024

Margarita alla menta: la bevanda analcolica dell’estate che rinfresca e ristora

Tra i piaceri semplici e rigeneranti dell’estate c’è sicuramente quello di sorseggiare una bevanda fresca, profumata e dissetante. La Margarita alla menta, nella sua versione analcolica, unisce il gusto vivace del limone alla freschezza intensa della menta, in un mix che non solo disseta, ma aiuta anche a lenire lo stomaco affaticato dal caldo. Facile da preparare, bella da vedere e ancora più piacevole da bere: è la protagonista perfetta di un pomeriggio assolato o di una serata in compagnia.

Ingredienti (per 2–3 bicchieri)

  • Succo di 3 limoni freschi

  • 1 tazza abbondante di foglie di menta fresca

  • Sale nero e sale bianco q.b. (un pizzico ciascuno per bilanciare l'acidità)

  • Da 2 a 3 cucchiai di zucchero (a seconda dei gusti)

  • 2 tazze di acqua fredda naturale o acqua gassata

  • Ghiaccio a piacere

  • Fette di limone e foglie di menta per decorare

Procedimento

  1. Prepara il concentrato alla menta e limone
    In un frullatore inserisci: le foglie di menta lavate, il succo di limone, lo zucchero, un pizzico di sale bianco e uno di sale nero, insieme a mezza tazza di acqua. Frulla fino a ottenere un composto omogeneo e profumato.

  2. Filtra il liquido
    Usa un colino fine o una garza per filtrare il composto, rimuovendo residui di menta e polpa di limone. Se preferisci una consistenza perfettamente liscia, ripeti il filtraggio una seconda volta.

  3. Servi la margarita
    Riempi i bicchieri con cubetti di ghiaccio. Versa il concentrato filtrato fino a riempire circa metà del bicchiere. Aggiungi acqua gassata o acqua naturale fredda fino a colmare. Mescola delicatamente.

  4. Decora e gusta
    Guarnisci ogni bicchiere con una fetta di limone sul bordo e qualche foglia di menta fresca. Servi subito, ben freddo.

Consigli extra

  • Per un tocco esotico, aggiungi una spruzzata di acqua di fiori d’arancio o una grattugiata di zenzero fresco.

  • Se vuoi servire la bevanda in stile festivo, puoi decorare il bordo dei bicchieri con zucchero e sale mescolati, passandoli prima nel succo di limone.

  • Preferisci la versione alcolica? Puoi aggiungere un tocco di tequila per ottenere una Margarita alla menta “adulta”.



Bevi lentamente questa deliziosa e aromatica bevanda estiva, lasciati rinfrescare dal gusto puro della natura e, come suggerisce la tradizione, non dimenticare di ringraziare per ogni sorso.



domenica 21 aprile 2024

Come preparare un frullato all’avocado fatto in casa: cremoso, fresco e pronto in pochi minuti

Il frullato all’avocado è una bevanda sorprendentemente delicata, perfetta per chi cerca una merenda sana, nutriente e gustosa. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il suo sapore non è untuoso: ha una consistenza vellutata e un gusto quasi identico a quello dei frullati confezionati... ma molto più genuino!

Ecco come realizzarlo a casa in modo semplice, con la possibilità di personalizzarlo in base ai tuoi gusti.

Ingredienti (per 1–2 porzioni)

  • 1 avocado maturo

  • 250 g di ghiaccio in cubetti

  • 105 g di latte (vaccino o vegetale, a scelta)

  • 90 g di yogurt bianco o alla vaniglia

  • (facoltativo) qualche briciola di ghiaccio aggiuntiva, per una consistenza più “fresca”

  • (facoltativo) qualche goccia di estratto di mandorla o sciroppo di mandorla, da aggiungere alla fine

Procedimento

  1. Prepara l’avocado: taglialo a metà, elimina il nocciolo e raccogli la polpa con un cucchiaio.

  2. Inserisci gli ingredienti nel frullatore nell’ordine seguente: latte, yogurt, avocado e infine il ghiaccio.

  3. Attiva la modalità Milkshake (o una velocità medio-alta, se non hai un’impostazione dedicata). Frulla per 30–40 secondi o finché il composto sarà liscio e omogeneo.

  4. Personalizza (facoltativo): se ti piace il gusto di mandorla, aggiungi ora un paio di gocce di estratto o mezzo cucchiaino di sciroppo di mandorla. Frulla per altri 10 secondi.

  5. Assaggia e regola: puoi aggiungere più yogurt per una consistenza più densa o meno ghiaccio se non puoi berlo freddo.

  6. Servi subito, decorando con un filo di miele, qualche mandorla tritata o foglioline di menta.

Consigli extra

  • Se preferisci una bevanda più dolce, puoi aggiungere 1 cucchiaino di miele o sciroppo d’acero prima di frullare.

  • Per una versione vegana, usa latte vegetale (come mandorla o cocco) e yogurt vegetale.

  • Se hai un frullatore a bassa potenza, lascia ammorbidire leggermente il ghiaccio o usane di tritato per evitare danni alle lame.

Il risultato? Un frullato denso, setoso e naturalmente dolce, ottimo per una colazione leggera, una pausa pomeridiana o un dessert alternativo. L’avocado, con il suo profilo nutrizionale ricco di grassi buoni e fibre, si trasforma così in un alleato del benessere… e del palato.



sabato 20 aprile 2024

L’arte dimenticata della birra britannica: perché la Real Ale richiede mani esperte

 

Per milioni di persone, ordinare una pinta in un pub britannico è un gesto quotidiano, quasi istintivo. Ma dietro il semplice atto di spillare una birra si cela un mondo fatto di precisione, tradizione e una sorprendente complessità. E nel cuore di questo mondo c’è lei, la real ale, regina non incoronata della birra britannica, che più di ogni altra incarna l’identità e l’orgoglio della cultura pub. Ma perché questa birra ha bisogno di cure così speciali? Perché servirla è considerato, ancora oggi, una vera arte?

A differenza delle birre industriali moderne, la real ale — così definita dalla Campaign for Real Ale (CAMRA)non è filtrata, non è pastorizzata e completa la sua fermentazione nella stessa botte in cui verrà servita. Ciò significa che quando arriva nella cantina del pub, è ancora un organismo vivo, che evolve, matura e può — se maltrattato — guastarsi nel giro di ore.

La gestione della real ale comincia nel momento esatto in cui la botte viene consegnata. “È stata scossa su un camion, bisogna lasciarla riposare almeno 24 ore,” racconta un ex cantiniere con anni di esperienza e una conoscenza quasi liturgica del processo. La botte, che può pesare fino a 72 kg da piena, va sistemata su un supporto inclinato che permette alla birra di essere spillata correttamente, con i lieviti depositati al fondo. Una manovra che richiede abilità, forza fisica e non poca attenzione.

Ogni fase conta: lo sfiato, la pulizia dei tappi e degli strumenti, il posizionamento dello spile (un piccolo rubinetto di legno o metallo) e soprattutto la valutazione del momento esatto in cui la birra è pronta per essere servita. “Se sfiati troppo presto,” spiega il cantiniere, “ti ritrovi con una fontana di birra e litri sprecati. Troppo tardi, e la birra è ancora turbolenta, con i lieviti in sospensione.” La real ale, come il vino non filtrato, è un equilibrio delicatissimo tra natura e tecnica.

Il servizio è altrettanto critico. Niente spine pressurizzate o CO₂ artificiale: la birra viene pompata a mano, tramite un beer engine, con colpi decisi e regolari. In molte regioni del Regno Unito, come lo Yorkshire, i clienti si aspettano una schiuma cremosa e persistente, ottenuta grazie allo sparkler, un piccolo diffusore che forza la birra attraverso dei fori producendo microbolle. Regolarlo male può rovinare l’esperienza di degustazione.

Ma perché tutto questo influenza l’opinione pubblica sulla birra britannica? Perché il modo in cui una birra viene servita può decretarne il successo o la rovina. Una real ale ben gestita è un prodotto straordinario: profonda, complessa, viva. Una mal gestita diventa torbida, acida, imbevibile. Non a caso, molti pub si giocano la reputazione sulla qualità delle loro birre in pompa. “Un pub vive o muore in base a come serve la birra,” afferma senza mezzi termini il cantiniere.

Anche per questo la figura del cantiniere è cruciale e troppo spesso sottovalutata. È lui a stabilire i tempi di maturazione, a garantire la pulizia quotidiana delle linee, a coordinare il consumo per evitare sprechi. Una birra real ale ha una finestra di consumo ottimale di appena tre giorni dopo l’apertura. Servirla oltre quel termine è un disservizio al cliente e un insulto al birrificio.

Eppure, in un mondo sempre più dominato da lager standardizzate e birre industriali, la real ale rappresenta un baluardo di autenticità. Non solo è parte integrante del patrimonio culturale britannico — tanto da aver avuto un ruolo nella formazione della CAMRA, un movimento che ha salvato centinaia di birrifici artigianali negli anni ’70 — ma è anche una sfida lanciata a chi considera la birra solo una bevanda da consumare fredda e gassata.

Paradossalmente, proprio la sua natura esigente la rende poco compresa dai consumatori occasionali e spesso snobbata nei locali meno specializzati. Chi la serve male — per inesperienza, disinteresse o semplice mancanza di formazione — rischia di far passare un prodotto nobile per un liquido difettoso. E così, l’opinione pubblica sulla birra britannica ne risente, scivolando verso la percezione di un prodotto datato, difficile, poco attraente. Ma la verità è che, se trattata con rispetto, la real ale offre una delle esperienze di bevuta più ricche e gratificanti al mondo.

In tempi in cui si celebra l’artigianalità in ogni ambito, dalla panificazione al caffè, è forse ora di riconoscere che anche spillare una pinta può essere un atto d’arte. E che la birra britannica, per essere apprezzata davvero, merita mani esperte, pazienza e soprattutto rispetto.



venerdì 19 aprile 2024

Quanto era forte il rum ai tempi dei pirati? Il “Kill-Devil” che bruciava gola e stomaco

Nel folklore popolare, pochi simboli evocano l’epoca d’oro della pirateria quanto una bottiglia di rum. Eppure, ciò che oggi troviamo sugli scaffali dei bar è un lontano cugino addomesticato di ciò che i pirati effettivamente bevevano. Il rum del XVII e XVIII secolo — il cosiddetto Kill-Devil, o "uccidi-diavolo" — era una bevanda brutale, grezza e pericolosamente potente.

Quella dei pirati non era certo una cultura del bere raffinata. Il rum dell’epoca era il risultato diretto della distillazione della melassa, un sottoprodotto della lavorazione dello zucchero di canna, eseguita con tecniche rudimentali nei Caraibi e nelle colonie. Non esisteva alcun processo di invecchiamento, né filtri sofisticati per migliorarne il gusto. Veniva spillato direttamente dalle botti e consumato immediatamente: torbido, forte e irregolare.

La gradazione alcolica? Notevole. In assenza di strumenti di misurazione affidabili, la Royal Navy britannica sviluppò un metodo empirico per testare la “forza” del rum. Era semplice: si versava un po’ di rum su della polvere da sparo. Se la polvere si accendeva comunque, anche inumidita, la bevanda era “proof” — ovvero sufficientemente forte da meritare fiducia. Questo metodo rudimentale definiva una soglia minima: circa il 57% di alcol in volume. Qualsiasi cosa al di sotto era considerata inadatta, persino per i marinai.

Molti dei rum consumati dai pirati — e da marinai e soldati — superavano di gran lunga quella soglia. Bottiglie che oggi troveremmo inaccettabili o pericolose erano allora la norma: 60%, 65%, persino 70% di gradazione alcolica. In assenza di refrigerazione, pastorizzazione o alternative più sicure, il rum era anche una forma di disinfezione interna. Ma soprattutto era una fuga: una scossa potente, capace di riscaldare lo stomaco e intorpidire il corpo in pochi sorsi. Non si beveva per il piacere del palato, ma per sopportare la brutalità della vita in mare.

In effetti, il rum era una valuta sociale e politica. Nelle navi della Marina britannica, ad esempio, veniva distribuito quotidianamente sotto forma di razione, spesso miscelato con acqua per creare il celebre “grog”. Questo non solo ne riduceva la potenza, ma aiutava a sterilizzare l'acqua stagnante a bordo. Ma tra i pirati, che vivevano fuori da qualsiasi gerarchia ufficiale, il rum scorreva liberamente, spesso come parte integrante di una paga o come bottino spartito.

Bere quel tipo di rum non era un gesto ricreativo. Era un atto quasi violento. Bruciava la gola, avvolgeva lo stomaco in un calore ruvido, e lo si ingeriva rapidamente — non per gusto, ma per necessità. Non c’erano bicchieri da degustazione né discorsi sul “bouquet” o la “persistenza”. C’era solo fuoco liquido, versato e ingoiato in fretta, tra una razzia e una burrasca.

Il rum dell’era dei pirati non era una bevanda da intenditori. Era una sostanza estrema per tempi estremi: rozza, potente, scomoda. Eppure, nella sua crudezza, rappresentava la vita dura e senza compromessi di chi lo beveva. Oggi possiamo trovarne delle riproduzioni storiche — rum overproof, non diluiti, che raggiungono anche il 75% vol. — ma nessuno, nemmeno il più intrepido dei bevitori moderni, dovrebbe scambiare un sorso di quei liquidi ardenti per un’esperienza romantica. Perché a bordo di una nave pirata, il rum era molto più che una bevanda. Era una prova di sopravvivenza.


giovedì 18 aprile 2024

Espresso, ristretto, lungo e cappuccino: guida chiara alle differenze fondamentali del caffè italiano

Nel cuore della cultura italiana, il caffè non è solo una bevanda, ma un rito, un’esperienza che varia nelle sue forme più classiche. Capire la differenza tra espresso, ristretto, lungo e cappuccino è essenziale per chiunque voglia apprezzare appieno la tradizione del caffè italiano.

L’espresso rappresenta la base, il re indiscusso del caffè al bar. Preparato con una macchina specifica, si ottiene forzando acqua calda ad alta pressione attraverso caffè finemente macinato. Servito in tazzina piccola, riempie circa metà della tazza, offrendo un gusto intenso e concentrato, privo di aggiunte. È la forma pura del caffè italiano.

Il ristretto, o “corto”, è una variante dell’espresso. Si ottiene estraendo il caffè in un tempo più breve, producendo una quantità minore di liquido – circa un terzo della tazza – ma con un sapore più concentrato e intenso. Nonostante l’intensità, contiene meno caffeina dell’espresso normale perché l’estrazione è più rapida.

Al contrario, il lungo prevede un’estrazione più prolungata, riempiendo quasi tutta la tazza. Il risultato è un caffè meno intenso nel sapore ma più ricco di caffeina, ideale per chi preferisce un gusto più delicato e una bevanda più abbondante.

Il cappuccino si distingue dagli altri perché non è solo caffè, ma un mix di espresso e latte. In proporzioni quasi uguali, si unisce all’espresso il latte caldo e la sua schiuma densa, creando una bevanda cremosa e vellutata, generalmente servita in tazza più grande. Tradizionalmente consumato a colazione, il cappuccino è più simile a un alimento che a una semplice bevanda e raramente si beve dopo i pasti.

Oltre a queste, esistono numerose altre varianti come il doppio espresso:

  • Normale (riempie la metà inferiore della tazza - in Italia è solo il caffè);

  • Lungo, preparato più a lungo (riempie la maggior parte della tazza, ha un sapore meno intenso, contiene più caffeina);

  • Corto, detto anche ristretto, preparato per un tempo più breve (riempie il terzo inferiore della tazza, più sapore, meno caffeina);

  • Doppio, due shot regolari;

  • Macchiato, normale con un goccio di latte schiumato;

  • Schiumato, normale con schiuma di latte ma senza latte;

  • Marocco o marocchino, macchiato in tazza di vetro e con cacao in polvere;

  • Macchiato freddo, con latte freddo a piacere (ti viene servito l'espresso normale con un piccolo barattolo di latte freddo a parte, puoi aggiungere la quantità di latte che desideri);

  • Americano: espresso in tazza grande servito con un barattolo di acqua calda per diluirlo.

  • Caffè corretto: normale espresso con un goccio (o più) di grappa (o altro liquore).

  • Risintin o resentin: mezza dose di grappa versata nella tazzina da caffè usata per sciacquarla e aromatizzare la grappa con i residui del caffè.

  • Caffè leccese: espresso con ghiaccio e una dose di denso latte di mandorla italiano. (Non aggiungere zucchero, è già molto dolce. Non tutti i posti lo preparano.)

  • Caffè shakerato: espresso, sciroppo di zucchero, tanto ghiaccio, a volte qualche goccia di estratto alcolico alla vaniglia, il tutto in uno shaker, shakerato bene, filtrato e servito in una coppetta Martini. Un drink estivo analcolico o minimamente alcolico, molto amato.

  • Caffè sospeso: un caffè che si paga, non si beve e si lascia a una persona che non si incontrerà mai ma che il barista sa essere economicamente svantaggiata. Una tradizione napoletana. (Ancora Carlo Volpe)

Questi sono tutti i classici caffè da bar italiani. Poi ci sono i prodotti a base di latte, percepiti più come cibo che come bevande:

  • Cappuccino, parti uguali di caffè espresso e latte schiumato in una tazza grande (principalmente un alimento per la colazione, può essere consumato come spuntino pomeridiano, mai dopo i pasti);

  • Latte macchiato, latte schiumato con una dose di caffè espresso.

L'espresso può essere anche disponibile come dec (decaffeinato), al ginseng (per una sferzata di energia, ha il sapore di una medicina) e orzo (orzo, sotto), un surrogato del caffè per bambini e per chi non vuole assolutamente assumere caffeina (l'orzo può essere piccolo o grande). Alcuni dei caffè sopra citati sono disponibili anche in altre soluzioni (come l'orzo macchiato, ad esempio).

La differenza principale tra espresso, ristretto, lungo e cappuccino risiede nel tempo di estrazione, nella quantità e nella presenza o meno del latte, elementi che plasmano l’esperienza di gusto, la forza e la cremosità di ogni tazza. La scelta dipende dal momento della giornata, dal gusto personale e dalla tradizione che si vuole celebrare.



 
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